Amber Goldhammer (Portland, Oregon, ? – Santa Monica, CA) – The Meeting (2018)
Una persona diventata personaggio
di Alessandra Tucci
Aspettavo il verde per attraversare. I semafori di Piazza San Giovanni hanno sempre tempi infiniti.
Ero impaziente, avevo fretta, ero stanca. Estraniata. Sequestrata dal cellulare che mi vomitava nell’orecchio una telefonata infinita. L’ennesima di quella giornata che stava sfumando nella sera. Il mondo era fuori, io ci camminavo dentro senza neanche calpestarlo, senza sentirlo.
L’ho incrociato più o meno a metà dell’attraversamento, il verde era scattato. Veniva verso di me, la direzione opposta alla mia, anche lui al telefono. Quando era a pochi passi ho alzato gli occhi, uno sguardo addosso si sente, sulla pelle. Ho incrociato i suoi, li ho abbassati. E ho proseguito. Indifferente.
L’avevo riconosciuto, ho proseguito senza fermarmi. Neanche un cenno, nessun tentennamento. Raggiunto il marciapiede mi ha raggiunta la sua voce, una voce d’uomo. Viva. Dopo qualche attimo mi ha raggiunta lui. Non era più al telefono. Era impossibile che mi conoscesse, voleva farlo allora.
Se negassi un profondo stupore mentirei, stupita lo ero. Ma ero anche divertita. Com’era possibile che un uomo tanto conosciuto per la sua brillante e poliedrica e provocatoria intelligenza invertisse la propria rotta per raggiungere e conoscere una sconosciuta che oltretutto aveva ignorato la sua aurea di notorietà? L’avevo ignorato spudoratamente, sì, ma senza intenti offensivi. Non ho mai avuto inclinazioni all’idolatria, tutto qui, nessun poster nella cameretta adolescente, non idoli da osannare. O fermare per strada. Se non i grandi classici, ma per le strade loro non camminano più.
Mi ha teso la mano, si è presentato. Come se ce ne fosse bisogno. E ha stretto la mia. Chiedendomi di me. La curiosità ha cominciato a crescere. Sempre di più. Come mai non mi parlava di sé? Lo fanno tutti, senza neanche prendere e riprendere fiato, lo fanno ancor più se hanno decine e decine di riconoscimenti. Di meriti. Acclamati, conclamati.
“Dimmi di te, Alessandra”. Era questa la risposta, sempre la stessa. La opponeva fermo e cordiale alle mie domande sulla sua carriera, sui suoi talenti. Sul suo successo. Sul quel suo viverci dentro ormai da innumerevoli anni.
Perché non si incensava, perché non usava il suo poliedrico essere ed essere riuscito ovunque abbia tentato per ammaliare e conquistare un complimento in più, l’ennesimo ammiratore? Non era questo che voleva? Glielo stavo servendo senza sosta il servizio per schiacciare la sua autostima dritta al colpo vincente. E schiacciare me all’angolo.
“Dimmi di te, Alessandra, cosa fai, chi sei, cosa vuoi?” Tre domande facili facili. E a me non piace dare risposte. Non mi piacciono le risposte. Legano, incastrano, restringono dentro lo spazio che tracciano. E lasciano fuori un universo intero.
Ho deviato sui sogni, quelli li posso modellare come quando e quanto voglio. Non hanno limiti, non li ha la mia inclinazione onirica. E volano alti, indifferenti allo schianto.
“Mah, quello che in realtà mi piacerebbe essere …”. “Già lo sei”. Esattamente così. Secco, diretto, lapidario. Ha interrotto la mia frase a metà, portando nel tempo presente e certo un ipotetico desiderato futuro. Che neanche avevo espresso.
Che non gli interessasse in realtà? Che fossero solo domande di circostanza le sue? Ah, no, se si chiede ed insiste la risposta la si deve accettare.
Ci ho riprovato, diretta sul sogno, tentando una maggiore incisività. “Le dicevo, il mio sogno nel cassetto …”. “Il tuo sogno è già realtà”.
Di nuovo. Neanche mi ha consentito di aprirlo quel cassetto. Uno scherzo, un finto interesse smascherato da un insofferente non-ascolto? Cosa?
“Ascolti …”. “Ascoltami tu, Alessandra”. Un vizio il suo a quanto pare. Comunque ho ascoltato. Ho taciuto ed ascoltato, di alternative non ne lasciava.
“Se vivi ed esprimi quello che dentro senti di essere come un sogno o un desiderio tale rimarrà, un sogno proiettato in un futuro incerto che non arriverà, privo di consistenza. Tu sei già quello che vuoi essere, tu sei già il tuo sogno. E’ così che costruisci tutto”.
Annichilita. Schiantata per l’esattezza. Su parole che sapevo vere, dannatamente vere. Ma che non avevo (avuto) il coraggio di indossare io per prima. Svestendo quella sdrucita e lisa pudicizia che è solo vigliaccheria e infilando sulla pelle l’autenticità di quella semplice, e potentissima, legge. Essere, non tendere ad essere.
“Questo è il mio numero. Quando vuoi e se vuoi, Alessandra. Vorrei che mi raccontassi di te. Non di quello che sogni, di quello che sei”.
Ed è andato via. L’autista lo aspettava poco più in là, l’ha raggiunto. Ho guardato quell’uomo che si allontanava. Pensavo di avere di fronte il personaggio, mi ero imbattuta nella persona. Una persona che dava attenzione, non ne voleva per sé, non su di sé.
Una persona proiettata all’esterno, sul mondo, tra la gente. A carpire, scoprire, conoscere. Famelica, vorace, aperta. Attenta. Una persona che non aveva obiettivi, era i propri obiettivi. Per questo li aveva raggiunti tutti. Per questo non smetteva di centrarli. Da decenni.
Una persona che era diventata personaggio perché non era (rin)chiusa dentro il proprio sé ma (ne) usciva. Fuori. Perché sapeva che è fuori che si vive, dentro lo scambio con l’altro da sé, è quello che accresce. Che è tutto lì, nel costante scambio, il segreto del successo.
Una persona che indossava quello che sentiva, tutto quello che voleva. E lo mostrava impudico perché chiunque lo incrociasse imparasse ad indossarlo. Ad indossarsi.