Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Gustav Jahn (Vienna, 1879 - Johnsbach, Austria ,1919 ) - In the high Mountains

 

Alla scoperta di mondi lontani (1)

Nel magico mondo delle montagne pakistane

di Odina Grosso Roviera

 

Ho sempre “fatto” montagna. Sin da piccola, essendo cresciuta in un paesino con le montagne biellesi davanti agli occhi.

Diventando adulta, cominciai piano piano, con un gruppo già esperto e appassionato che mi insegnò a vivere la montagna senza competizione: la méta non era la conquista della cima, ma il viaggio. E così scoprii l’arte della contemplazione. Raggiunta la cima, c’era sì, la gioia di essere arrivati, ma anche uno spazio per condividere le rispettive sensibilità e interiorità, fonti di legami profondi.

A queste gite domenicali, fecero seguito i primi viaggi nel deserto, tra le popolazioni isolate dell’Africa, del Brasile, dell’Asia. Presi confidenza col viaggio in modo rispettoso, ma sempre libero e paritario; artefice di un contatto autentico con le popolazioni di una vastissima parte di mondo, troppo spesso ignorata.

Ho imparato tanto da ognuno di questi viaggi, e per quelli presso le tribù isolate devo ringraziare Maurizio Leigheb, che includendomi nelle sue spedizioni (organizzate per girare documentari e scrivere libri), mi ha permesso di addentrarmi nel mondo di queste etnie, imparando così a mangiare come loro, camminare come loro, dormire come loro, ma soprattutto entrare nel loro spirito, nella loro filosofia di vita, nella loro cultura. Tutto questo mi colmava di gratitudine per ogni singolo incontro, accrescendo la mia consapevolezza e contribuendo a una profonda trasformazione interiore.

Nel 1997 ho cominciato anche a fare il primo trekking alpinistico, davvero impegnativo. Avevo 54 anni.

Obiettivo della spedizione: il campo base ai piedi dell’Everest a 5364 m, in Nepal (versante sud nepalese, ai piedi del Ghiacciaio Khumbu). Da lì si sarebbe poi compiuta la salita alpinistica all’Island Peak (di 6189 m: non arrivai in cima; però, dalla struttura del campo base, si compivano ascensioni a stella a cui partecipai tutti i giorni, con rientro in giornata al campo base.

Tutti questi viaggi rispondevano a un bisogno: la cura al malessere di sentirmi un sacco svuotato e la necessità di ritrovare un equilibrio perduto strada facendo, lungo il percorso accidentato di un affidamento difficile. La fortuna fu l’avere un medico di base con lo sguardo “lungo” che individuò sia il mio disagio che la sua cura. La conoscenza che aveva di me e delle mie passioni (rispetto alla natura e alla montagna), individuò la luce in fondo al tunnel, e mi disse che non era più tempo di continuare a imbottirmi di medicine, ma che dovevo allontanarmi per un po’; cercando, in una nuova “boccata d’ossigeno”, la tregua a una continua conflittualità. 

Un contributo importante me lo dette anche mio marito che, vedendomi titubare (al pensiero di riversare su di lui le incombenze e gli impegni di tre figli adolescenti in mia assenza), mi incoraggiò, alleggerendo quel pensiero e la mia responsabilità, dandomi quindi la spinta finale (rispetto alla quale sono e sarò sempre riconoscente). Anno dopo anno, viaggiando, sono riuscita a riempire quella parte del sacco che man mano si svuotava.

Ho continuato a viaggiare, ovunque. Ma in questo racconto vorrei soffermarmi su un’esperienza accadutami in alta montagna, a 74 anni.

Le persone con cui ho viaggiato hanno sempre proposto mete in località selvagge, montuose, desertiche, poco “di moda”; verso popolazioni isolate come in Brasile o nell’instabile Sud Sudan; oppure ancora le incontaminate popolazioni della Papua Nuova Guinea, e così è stato anche per questo ultimo viaggio nel Pakistan, in cui sarei tornata per la terza volta.

Il viaggio consisteva nell’attraversamento di due passi, raggiungendo prima il West Muztagh, 5735mt. su territorio pakistano, sconfinando poi in Cina, per il passo Moni La, 5540 m, dove risulto essere stata la prima donna al mondo ad averlo superato.

Prima di intraprendere questo viaggio mi consultai con la guida Abdul, che conoscendomi molto bene sia da un punto di vista alpinistico che umano, avrebbe saputo consigliarmi; in quanto, vista la mia età, mi pareva un progetto ambizioso e lo temevo un po’ un azzardo. Non ebbe dubbi di sorta, grazie a due caratteristiche che lui in me riconosce e per lui sono fondamentali per la riuscita della spedizione: il mio sapermi adattare e saper soffrire.  Questo mi rassicurò, mi diede fiducia e così partii.

Il viaggio si dipanò dapprima per villaggi e campi coltivati, poi ci allontanammo via via dalla civiltà, salimmo di quota, diradando sempre di più presenze umane, animali, vegetali fino a sentirsi circondati da immense pietraie e infine solo più dal totale biancore della neve e del ghiaccio. Tanto ghiaccio, fino a incontrare il crepaccio, che mi ha inghiottita e mise alla prova me e il gruppo.

Sono passati almeno venticinque anni di vita trascorsa seguendo la famiglia, la crescita dei figli, la gestione del nostro negozio, gli impegni e le vicissitudini legate man mano alla convivenza con le figlie in affido. Una vita piena, come tante donne e tante famiglie portano avanti ogni giorno. A questo si aggiungono altre dure prove di salute, come l’essere guarita da un tumore e a ruota l’essermi ammalata di covid in una forma piuttosto grave, di cui porto ancora le conseguenze.

Nonostante ciò ho sempre trovato conforto in una chiave per entrare in contatto col mio mondo interiore e cui trarre forza: l’osservazione della natura, come spiraglio di luce.

Non è mai stata questione di formazione o di tempo, piuttosto di una concentrazione totale nel connettermi col Tutto, in qualsiasi forma: la sofferenza, la solidità e la serenità di uomini e di popoli, la manifesta forza di un fiore spuntato tra le rocce o ancora due gocce d’acqua sufficienti a risvegliare semini resistenti e pazienti e far esplodere di fioriture un deserto. Grandi insegnamenti (volti anche a ridimensionare le mie cause di sofferenza), strettamente correlati con le mie guarigioni. Su questo resto fiduciosa anche per ulteriori nuove prove attualmente presenti che affronto non in un’ottica di guarigione futura, ma come già a guarigione ottenuta.

Anche il racconto di queste mie esperienze lo vivo un po’ come un piccolo seme di speranza e di fiducia che spero possa crescere in chiunque si trovi a dover affrontare prove difficili lungo il cammino della vita.

Dunque, ero caduta in un crepaccio.

Tra un loro incoraggiamento e la mia attenzione a eseguire le loro indicazioni, si avvicendava dentro di me una girandola di stati d’animo differenti, e mi ritrovai ad avere un’alternanza di paura, forza, dolore e fiducia. La storia è a lieto fine: il gruppo riuscì a tirarmi fuori. Sul momento saranno gli abbracci a esprimere le forti emozioni provate da tutti, e solo a distanza di molto tempo sono riuscita a scriverne.

Comprendo ora che la vicenda vissuta è stata una messa a frutto di tutte quelle brevi meditazioni e delle tante piccole, semplici esperienze di connessione che ho tentato di raccontare, e che mi hanno permesso di superare una grande prova.

Tutto questo l’ho di recente raccontato nel libro “Nel magico mondo delle montagne pakistane” edito da Hever Edizioni, che ringrazio ancora per l’appassionata collaborazione di cui mi hanno gratificato: e non solo, ma altresì per l’amichevole insistenza di continuare i racconti di incredibili avventure alla scoperta di mondi lontani, con eventi che talora sembrano straordinari persino a me.

 

Inserito il:05/11/2021 21:58:13
Ultimo aggiornamento:05/11/2021 22:12:24
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