Aggiornato al 21/11/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Cristofano dell'Altissimo (Firenze, 1525 - 1605) - Ismail Rex

 

Storia della Persia - 10

(seguito)

di Mauro Lanzi

 

La rinascita della nazione persiana.

I Safavidi

 

                                                Ardabil

 

Per molti secoli la Persia, dopo l’epoca dei Parti Arsacidi e Sassanidi, era rimasta sotto il tallone di dominatori stranieri, prima gli omayyadi, poi gli abbassidi, infine i mongoli; abbiamo visto, come, in determinati periodi, la cultura persiana potesse ancora fiorire ed eminenti personalità persiane potessero giungere a posizioni politiche di rilievo, anche di primissimo piano; il tutto però non portava ad una identità nazionale, anche il movimento sciita restava sottotraccia, limitato ad una corrente di protesta contro i ricchi possidenti sunniti.

La rinascita della nazione ha origine da un monastero, Ardebil (nell’odierno Azerbaijan), fondato nel 1301 da un derviscio di nome Safi ad Din (da cui il nome della dinastia che ne discese, i Safavidi), al centro di in una regione devastata dalle invasioni mongole: i monaci, inizialmente sunniti, si convertirono alla scia verso la fine del 1300, forse per la pressione delle tribù nomadi sciite che si rifugiavano su quegli altipiani desolati per sfuggire alle armate dei principi sunniti. La conversione divenne un fatto dirompente quando il primate ordinò ai suoi monaci di intraprendere azioni missionarie; il messaggio portato dai missionari era un messaggio radicale di protesta contro le ineguaglianze e le ingiustizie sociali, contro i ricchi latifondisti che espropriavano i miseri contadini dai loro fondi, cacciavano i nomadi dai pascoli, esercitavano un’oppressione spietata sulle classi più umili: la soluzione proposta dai missionari era una società di uguali, quale quella che si era creata ad Ardebil, nel nome dell’Imam portatore di giustizia. Da questa saldatura tra motivi religiosi e protesta sociale nacque un movimento di forza dirompente, che aveva il suo epicentro ad Ardebil, dove il primate si trasformò ben presto in sceicco, capo militare di un esercito di nomadi (a sinistra il suo mausoleo).   Ardebil divenne uno stato rigidamente organizzato per caste, dal quale il messaggio sciita doveva diffondersi nelle regioni circostanti anche con la forza delle armi: il figlio del primo sceicco si proclamò sultano, rinforzò ulteriormente l’esercito, i cui soldati erano caratterizzati da un turbante rosso con dodici spicchi bianchi (a ricordo dei dodici Imam), non facendo mistero delle sue ambizioni sulle regioni circostanti: il momento sembrava propizio, l’indebolimento dei khan mongoli aveva favorito il nascere di una molteplicità di principati indipendenti in perenne contesa tra di loro. Seguirono comunque decenni di guerre sanguinose, il movimento armato sciita (le cosiddette “teste rosse”) fu protagonista di esaltanti vittorie, ma fu anche più volte battuto da forze preponderanti, lo stesso sultano Haidar fu sconfitto e messo a morte nel 1488, Ardebil conquistata e data alle fiamme.

Sembrava finita; si era però salvato, nascosto dai dervisci, un figlio del sultano, Ismail, di soli sette anni; nessuno gli dette importanza, ma passati dieci anni o poco più, Ismail tornò alla ribalta; proclamatosi discendente diretto di Safi ad Din e, tramite lui, dell’Imam Alì, fu il vero fondatore della dinastia safavide, riuscendo a riunire intorno a sé moltitudini di nomadi, dervisci, contadini espropriati; nessuno tra i principi sunniti in lotta gli uni con gli altri pensò ad intervenire in forma efficace: così le ”teste rosse” riuscirono ad occupare di sorpresa prima Baku e poi Tabriz; i soldati dervisci di Ardebil erano tornati al centro della scena politica, sotto la guida di un diciannovenne che si proclamava “infallibile”, “divino” “reincarnazione dell’Imam Alì”. Queste affermazioni sapevano di blasfemia, Ismail non era neppure un persiano, era un turco, ma di fronte ai suoi eclatanti successi nessuno osava contraddirlo; Ismail passava di vittoria in vittoria, con una serie di fulminee campagne si assicurò il dominio di tutta la Persia e della Mesopotamia, nel 1510 riuscì a sconfiggere anche il suo più forte avversario, il khan mongolo degli uzbechi. A questo punto Ismail ritenne di essere invincibile, di non avere più avversari; assunto il titolo di “sha-in-shah”, Re dei Re”, come i sovrani Achemenidi, iniziò a governare come un despota, imponendo la religione sciita su tutti i suoi territori, allontanando i sunniti da cariche pubbliche e moschee, fino ad ottenere la loro conversione. Ismail si proclamava invincibile, ma dovette presto fare i conti con una potenza di ben altra portata, l’impero ottomano, al cui vertice era salito nel 1512 un sovrano di grande statura, Selim I; Ismail avrebbe volentieri evitato il confronto, ma nel 1514 l’esercito turco invadeva la Persia; Solimano accusava il suo avversario di eresia, di aver falsificato il Corano, di profanare la vera fede. Ismail fu quindi costretto a riunire il suo esercito per affrontare il nemico nella piana di Tschaldiran, dove i moschetti ed i cannoni dei turchi fecero strage delle armate dervisce. Gli ottomani giunsero ad occupare Tabriz, ma furono poi costretti a ritirarsi per una rivolta dei soldati che non avevano ricevuto la paga. Ismail riuscì a salvare il suo regno, anche se perdette quella cieca fiducia in se stesso che lo aveva sospinto in avanti fino a quel momento; sembrava a chi incontrava un uomo svuotato, senza più una visione del futuro.

Il 1514 e la battaglia di Tschaldiran divennero uno spartiacque nella storia di questa regione, da quel momento gli ottomani divennero i difensori dichiarati dell’ortodossia sunnita ed i principali avversari degli sciiti; grazie alle conquiste di Egitto, Palestina ed Irak, la fede sciita fu limitata alla sola Persia, con modeste minoranze in altri paesi. D’altro canto, gli sciiti cominciarono a vedere negli ottomani e nei sunniti i loro peggiori nemici, ancora più che gli altri infedeli; tuttora nelle loro preghiere del venerdì gli sciiti sono tenuti a maledire il Califfo Omar (che i sunniti chiamano “il Giusto”), accumunandolo nei loro anatemi ad Osman ed Abu Bekr, colpevoli di aver osteggiato Alì, il vero successore del Profeta.

Gli ultimi anni di Ismail furono caratterizzati da problemi interni, dovuti al duro fiscalismo esercitato nei confronti delle classi più deboli; l’originaria ispirazione sociale del movimento derviscio era andata persa. Ismail morì nel 1524; anche se gli ultimi anni del suo regno furono caratterizzati da oppressione ed ingiustizia sociale, ad Ismail va riconosciuto il merito di aver creato uno stato che si identificava con una religione; ciò sarà negli anni a venire la grande forza e la grande remora di questo paese.

I successori di Ismail non dimostrarono qualità pari alle sue, in particolare dovettero subire la dura pressione dell’impero ottomano guidato in questo periodo da un grande sovrano, Solimano il Magnifico, che condusse le sue armate ad invadere nuovamente la Persia occupando ancora Tabriz. La situazione divenne così grave che un nipote di Ismail pensò addirittura di tornare al sunnismo.

La rinascita della Persia ed il suo momento di maggior splendore si ebbero sotto la guida di un personaggio grandioso e spietato, Shah Abbas I, Il Grande (a lato il palazzo reale da lui fatto costruire); salito al trono nel 1587, grazie all’appoggio delle “teste rosse”, si garantì il trono facendo assassinare i suoi due fratelli; poi si dedicò con pari energia e determinazione a pacificare il regno, eliminando con i metodi più spicci principi ed emiri che avevano contrastato i suoi predecessori. Shah Abbas (a destra un suo ritratto) fu un grande comandante militare; cominciò con la creazione di una guardia del corpo formata da soldati, scelti, ad imitazione dei giannizzeri, tra i cristiani convertiti; armati di moschetto, abilissimi cavalieri, questi nuovi pretoriani gli servirono per affrancarsi dall’egemonia delle “teste rosse”, che pure lo avevano condotto al potere. Proseguì con una profonda riforma dell’esercito, aiutato in questo compito da un generale inglese; furono introdotte le armi da fuoco e la polvere da sparo, i cannoni dell’esercito persiano erano tra i migliori per quei tempi.

Con queste nuove forze a disposizione, Shah Abbas si dedicò a ricostituire la potenza della Persia: ricacciò gli uzbeki dal Chorassan, riconquistò Herat e Kandahar, occupò quasi per intero l’attuale Afghanistan: infine, nel 1612 guidò personalmente la spedizione contro gli ottomani che occupavano stabilmente l’attuale Irak da molti decenni, riuscendo a

riconquistare anche le città sacre per gli sciiti di Meshed e Kerbela, che adornò di cupole dorate; a Meshed era morto l’imam Alì, Kerbela aveva visto la fine del figlio Husayn (sopra l’impero safavide ai tempi di Shah Abbas).  I rapporti preferenziali stabiliti con l’Inghilterra lo aiutarono anche a cacciare i portoghesi da Bahrain ed Hormuz, arrivando a controllare le rotte del golfo arabico ed aprendo al suo paese le vie commerciali di circumnavigazione dell’Africa, che affrancarono la Persia dal controllo ottomano dei traffici con l’occidente.

Shah Abbas fu anche un despota brutale ed intollerante di qualsiasi critica ed opposizione, soffocò nel sangue le rivolte dei contadini disperati per l’oppressione fiscale, giunse a mettere a morte il suo stesso figlio, ma  ricostituì il potere politico ed economico della Persia, portando a compimento l’opera iniziata da Ismail; la sua cura principale era per le città, che dovevano trasmettere a tutti lo splendore del suo regno, prima fra tutte la sua capitale, Isfahan, che conserva ancora nei suoi palazzi, nelle sue moschee e nei suoi giardini l’impronta della sua grandezza. Abbas si dedica al rinnovamento di Isfahan fin dal 1590, importando manodopera qualificata da ogni parte del suo regno, in particolare dall’Armenia, anche con trasferimenti forzati di migliaia di persone; il centro della città è dominato dalla

Heidan-i-Shah, la piazza dello Shah, lunga cinquecento metri e larga cinquanta (settanta volte più grande di piazza San Marco), con al centro una bacino d’acqua ed una fontana; sulla piazza si affacciano le due moschee di Masdijd-i-Luftollah e Masdijd-i-Shah, la prima dedicata ad un grande erudito del tempo, la seconda allo Shah, ma non Abbas, ma al vero capo politico della fede sciita, il dodicesimo Imam, di cui si attende la ricomparsa. La moschea reale venne considerata fin dalla sua costruzione come una delle meraviglie del suo tempo; grazie alla bellezza della sua pianta, al carattere grandioso delle sue proporzioni, allo

 

splendore del suo rivestimento in ceramica, alle sue nicchie, ai suoi minareti rappresenta il culmine dell’arte safawide, dell’arte persiana e, forse, di tutta l’arte islamica.

Shah Abbas volle fare di Isfahan il centro produttivo del paese; abbiamo già citato il trasferimento forzoso di migliaia di armeni, il sovrano cercò di concentrare nella capitale le forze migliori del paese: il risultato fu il fiorire di un artigianato di eccezionale qualità, che comprendeva la produzione di seta, vasellame ed anche tappeti, tradizione che, come sappiamo, sopravvive anche oggi. Si svilupparono anche la calligrafia e l’arte delle miniature, che rappresentavano scene pastorali, di corte od anche erotiche; da sottolineare che l’arte persiana è l’unica nell’islam che ammette figure umane.

Come spesso accade, quando la grandezza di una nazione è dovuta ad un autocrate geniale e spregiudicato, con la morte di Shah Abbas, avvenuta nel 1628, inizia la decadenza della Persia; Shah Abbas ne fu anche direttamente responsabile, in quanto non cercò mai di preparare all’esercizio del potere i suoi possibili successori, nel timore che potessero insidiare il suo trono. Lo stesso accadde per le generazioni successive; i rampolli reali venivano allevati negli harem tra donne e piaceri, lontani dal governo dello stato.  Il potere effettivo era esercitato dal Gran Wisir e dagli altri ministri, che erano tenuti ad inginocchiarsi davanti allo shah e baciare terra tre volte, per ottenere un generico consenso al loro operato; poi facevano quello che volevano, in un crescendo di corruzione ed oppressione delle classi più deboli; nessuno dei regnanti che si succedettero dopo Abbas mostrò mai il minimo interesse alla conduzione degli affari di stato, era persino difficile attirare la loro attenzione su decisioni di primaria importanza come la nomina di generali o governatori. Gli abitanti di Isfahan continuavano ad essere convinti di vivere nella più splendida città del mondo, l’inettitudine dello shah era messa in ombra dallo splendore del suo apparato, il corteo che lo accompagnava in ogni spostamento incuteva timore e rispetto; la popolazione vedeva nello shah attributi divini, molti erano persino convinti delle sue capacità di guarire molte malattie, facoltosi malati pagavano somme ingenti per avvicinare il sovrano e godere delle sue supposte virtù salvifiche.

Al di là delle apparenze, però, la decadenza era iniziata e proseguiva inesorabile; l’indebolimento del potere reale portò come logica conseguenza la nascita di un contropotere, quello del clero; questo contava nella seconda metà del ‘600 con 180.000 rappresentanti, la maggioranza dei quali erano poveri mullah di campagna, ma sopra di loro cominciò ad emergere una classe di dotti, la cui sapienza in materia religiosa ispirava considerazione e rispetto, che venivano detti “motschatahed”, (colui che dà giudizi). I motschatahed si consideravano i veri interpreti delle scritture, i discendenti dell’Imam, e, come tali, titolati anche a criticare lo Shah: i motshatahed erano ben lontani dallo spirito egualitario dei primi dervisci, erano spesso ricchi proprietari terrieri, ma la loro influenza veniva crescendo, si erano dati una sorta di organizzazione che eleggeva dei capi, dei rappresentanti titolati a fronteggiare il potere politico; questi capi eletti venivano detti “ayatollah” (simboli di Allah, o voce di Allah) e costituivano il contraltare del potere politico, senza la loro approvazione nessuna decisione poteva avere effetto; nasce così il potere di una gerarchia religiosa che regge ancora oggi il paese.

 

                                           Moschea di Luftollah e “coda del pavone”

(Continua)

 

Inserito il:29/07/2022 10:15:08
Ultimo aggiornamento:09/08/2022 14:48:07
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