Aggiornato al 21/11/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Stefano Faravelli (Torino, 1959 -   ) - Nel Regno di Mezzo, quaderno cinese

 

L’ordine mondiale (3)

(seguito)

di Mauro Lanzi

 

Il nuovo ordine imperiale

Dalle due guerre mondiali l’Europa degli stati vestfaliani uscì peggio che distrutta, realmente annientata: non solo le nazioni sconfitte nella seconda guerra mondiale, Italia e Germania soprattutto, dovettero pagare le conseguenze del conflitto che avevano scatenato, anche con amputazioni territoriali, ma persino i vincitori in Europa, Francia ed Inghilterra, si videro brutalmente derubricati a potenze di seconda classe, fu l’Europa intera a perdere il suo rango; quello che solo trent’anni prima era stato il centro del mondo era ormai ridotto ad una triste periferia disseminata di rovinecdn.britannica.com/33/229033-050-73CE4FAB/Josep... Fatalmente, con il fallimento dell’assetto multipolare vestfaliano, il pendolo della storia compie un’intera oscillazione, tornando ad insistere su di un ordine imperiale. che si presenta però diverso dai precedenti. Il tentativo condotto a Yalta da Roosevelt di coinvolgere il dittatore russo in uno schema di gestione comune del mondo fallì, Stalin concepiva solo l’uso della forza nelle relazioni internazionali. Quindi un sistema imperiale bipolare è il quarto macro-scenario che dobbiamo considerare; in esso emergono e si fronteggiano due imperi, l’impero americano e l’impero sovietico, entrambi con una forte connotazione ideologica, liberal democratica l’America, marxista-stalinista l’Unione Sovietica.

L’impero americano ricordava e ricorda in molti suoi lineamenti l’impero romano; a questo modello l’America sembra ispirarsi proprio per i principi fondanti: in primis per il concetto di stato di diritto, da applicarsi ovunque secondo gli americani, in secondo luogo per il senso ideale da dare alla guerra ed alle finalità della guerra, cioè l’esportazione di libertà e democrazia, poi per l’aspirazione ad un ordine universale, ma anche e soprattutto per la rapidità e l’abilità con cui l’America  riuscì dopo la guerra a trasformare i nemici sconfitti in alleati, trasferendo loro persino le basi di un sistema liberal democratico, anche quando questo non era proprio nel loro spirito o nelle loro tradizioni (pensiamo soprattutto a Germania e Giappone). Questi risultati furono possibili perché i pilastri dell’impero americano erano comunque molto solidi; parliamo di finanza, economia, progresso industriale e tecnologico, ma, soprattutto, di una forza militare capace di assicurare pace e protezione a tutti gli alleati sotto la copertura dell’ombrello nucleare. Evidentemente, nessuno fa beneficenza, gli americani trassero sostanziali vantaggi dalla loro posizione di predominio, ma il bilancio appariva comunque positivo e l’impero si resse, in ultima analisi, sul consenso, come era stato per l’impero romano; gli americani si sentivano l’asse portante di un “Impero del Bene”, nato per raddrizzare torti, cancellare oppressione ed ingiustizie.

L’Impero Sovietico si presentava con lineamenti totalmente diversi; nato dalla brutale annessione di stati confinanti occupati nelle ultime fasi della guerra, si reggeva sulla negazione di tutti i diritti individuali e sulla feroce repressione poliziesca, aiutata, quando necessario, da un diretto intervento militare russo, come accaduto in Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia; l’”Impero del Male”, lo definì così un presidente americano, ma tutto era giustificato, agli occhi dei sovietici e dei filosovietici, dalla prospettiva escatologica di un mondo comunista a venire.

 

Fine dell’ordine bipolare

Paradossalmente, una contrapposizione così netta, fondata sull’equilibrio del terrore nucleare, assicura per cinquant’anni una situazione sostanzialmente tranquilla, di pace mondiale, turbata solo da conflitti regionali. Poi, tra il 1989 ed il 1991 l’equilibrio si rompe; l’Unione Sovietica è afflitta da una devastante crisi economica, acuita dal continuo incremento delle spese militari, necessarie per tenere il passo con gli Stati Uniti. L’economia sovietica era improntata in quegli anni ancora al modello stalinista, centralizzazione e dirigismo, che nelle sue origini si era giustificato con la necessità di realizzare l’industrializzazione accelerata del paese; l’infrastruttura industriale, e soprattutto l’industria pesante creata a tempo di record da Stalin permisero all’Unione Sovietica di affrontare la potente macchina da guerra tedesca ed infine a prevalere sull’invasore. Quanto giustificato in periodi di emergenza però non regge al ritorno della normalità; il pesante apparato burocratico, la pianificazione centralizzata della produzione industriale, la collettivizzazione della produzione agricola non consentivano all’economia russa di reggere il passo con i tempi; se ne rese conto infine un esponente dell’apparato, ancora relativamente giovane, rispetto ai predecessori, Gorbaciov, che nominato segretario del partito comunista nel 1985 tentò di avviare  una politica di riforme; ma, pensateci bene, un regime dittatoriale che tenta di riformarsi è destinato al collasso e questo postulato di valore universale trovò puntuale applicazione nel regime sovietico di quegli anni: nel 1989 crolla il muro di Berlino, nel 1991 Gorbaciov si dimette, l’Unione Sovietica si dissolve in repubbliche o stati indipendenti, il sistema bipolare che aveva retto l’ordine mondiale per quasi cinquant’anni tramonta definitivamente. 

Dei due imperi ne resta in piedi uno solo, che sembra inevitabilmente destinato a governare il mondo; gli Stati Uniti si muovono rapidamente nella direzione di un mondo unipolare, tutti gli stati europei dell’ex-Unione Sovietica (dalla Romania, alla Polonia, alla Cecoslovacchia, agli Stati baltici) entrano nella NATO, ad un certo momento l’invito ad entrare nell’organizzazione viene esteso anche alla Russia. Sotto l’ombrello della “pax americana” si pensò di sviluppare un progetto di globalizzazione, orientato a coinvolgere tutte le nazioni in un’unica rete di scambi commerciali e di cooperazione industriale. In sostanza si trattava di un ordine multipolare regolato, una riedizione dell’assetto vestfaliano che avrebbe dovuto includere anche la Cina: il regolatore, in ultima analisi, dovevano essere gli Stati Uniti.

Era questo il sogno, che presidenti come Wilson e Roosevelt avevano fondato sul sangue di tanti soldati americani caduti nelle due guerre mondiali, l’America come faro di giustizia, libertà e benessere per tutto il mondo. Purtroppo, abbagliati da questo miraggio, gli americani non si avvedono di alcune evidenti crepe nel loro progetto, dall’allentarsi dei legami di solidarietà tra i paesi occidentale, dall’emergere di spinte sovraniste in molte democrazie alleate, fino al rancore che si va accumulando contro l’unico dominatore del mondo in certi ambienti islamici ed in una Russia, frustrata dalla perdita del suo status di potenza mondale. Si susseguono crisi devastanti: prima l’attentato alle Torri Gemelle, poi i fallimenti in campo internazionale Iraq, Afghanistan, Siria, per non parlare delle crisi interne, come la bancarotta Lehman Brothers, ma gli scogli su cui infine naufraga il progetto di un mondo unipolare sono fondamentalmente due, il rapido emergere dell’impero cinese e la guerra in Ucraina.  Guardiamo allora in faccia il nuovo protagonista del nostro futuro, la Cina.Franklin Delano Roosevelt - Wikipedia

Il Regno di Mezzo

 A volte per interpretare certe realtà basta decodificare le parole; in cinese la parola Cina non esiste, i cinesi ancora oggi definiscono il loro stato Zhōnghuá Rénmín Gònghéguó  sta per Repubblica (Gònghéguó ) Popolare ( Rénmín) dello Stato di Mezzo (Zhōnghuá). In tutta la loro storia i cinesi si sono sempre sentiti il Regno di Mezzo, il centro del mondo; bisogna riconoscere che per lunghi periodi questa presunzione non è stata del tutto infondata; favorita da vaste pianure, dall’abbondanza di acqua garantita dai grandi fiumi, dal surplus alimentare assicurato dalle culture di riso, la civiltà cinese si è sviluppata più rapidamente e più in profondità delle civiltà occidentali; alla Cina dobbiamo alcune delle scoperte essenziali per il nostro mondo, dalla bussola, alla polvere da sparo, alla stampa con caratteri mobili. Ma non basta, la superiorità del mondo cinese aveva anche basi nell’etica politica; essenziale per comprendere la Cina è il pensiero confuciano che predica l’armonia tra governanti e governati; proprio Confucio (VI secolo a.C.) mette l’accento sull’organizzazione sociale e sul rapporto tra individuo e collettività; proprio Confucio ammonisce le classi dirigenti che il loro potere non poteva derivare da posizioni acquisite per nascita, da ricchezze accumulate o da ambizioni personali, ma dal valore morale del loro operato (pensate si riuscisse ad insegnarlo anche ai nostri politici!!) La Il ricordo di Gorbaciov: Venticinque anni fa provai a salvare l'Urss ma  Eltsin mi tradì - Necrologie La Repubblicaburocrazia cinese, che era educata a questi insegnamenti, veniva selezionata per concorsi aventi il pensiero di Confucio come materia di esame, era una meritocrazia; forse anche per questo dimostrò in ogni epoca capacità di gestione dello stato di gran lunga superiori a quelle delle aristocrazie occidentali; fu proprio grazie alle qualità dei suoi amministratori che un’autocrazia imperiale sopravvisse in Cina quasi duemila anni, più di ogni altro impero sulla terra.

Ogni civiltà ha in sé le radici del suo declino, molto spesso le stesse che l’hanno fatta grande; nel XVI secolo la civiltà cinese conosce il suo apice, divenendo, secondo gli storici, lo stato più evoluto della terra, per economia, commercio, cultura; eppure, un mondo capace di produrre più di 100.000 tonnellate di ferro all’anno o di approntare una  flotta con navi di stazza pari a 1500 tonnellate, inspiegabilmente si avvia al tramonto; prigioniero della sua autoreferenzialità, chiuso in un vuoto senso di superiorità non si avvede dei progressi delle nazioni occidentali, trainate dalla nascente borghesia mercantilistica, proprio quella classe che il pensiero confuciano disprezzava più di ogni altra.

L’età imperiale in Cina si concluse nel 1911, per far posto ad un tentativo di repubblica parlamentare che affondò dopo pochi decenni a seguito dell’invasione giapponese e della guerra civile scatenata dal partito comunista; il 1° Ottobre 1949 nasce la Repubblica Popolare Cinese con a capo Mao Tze Dong, la Cina torna ad essere ciò che era sempre stata:un’autocrazia, un impero. La figura di Mao è stata molto discussa e criticata; a Mao viene riconosciuto dagli storici il merito di alcuni grandi capitoli della Cina contemporanea, come la guerra di liberazione contro l’invasione giapponese, l’eliminazione dei residui feudali nella società cinese, la riunificazione e l’indipendenza del paese, il tentativo di costruire uno stato moderno. Certo, Mao governò da autocrate, ma occorre ammettere che la democrazia non è mai stata nel DNA di questo popolo.

Gli errori drammatici furono altri; la meta di una industrializzazione accelerata, l’utopia di eliminare ogni differenza tra città e campagna, tra lavoro manuale ed intellettuale portarono Mao a scelte aberranti come il Grande Balzo in Avanti (1957-59), cioè l’industrializzazione forzata del paese, una fonderia in ogni cortile era lo slogan ripetuto ovunque, ed ancora peggio, la Rivoluzione Culturale (1966-75), che annientò università e classi acculturate; quanti milioni di morti siano costate al paese le follie e le purghe sanguinose volute da Mao, nessuno lo saprà mai dire.

Morto Mao nel 1976 cambia tutto; sale al potere Deng Xiaoping, che è stato detto l’artefice della seconda rivoluzione cinese; il processo di “riforme e apertura” (gaige kaifang) da lui lanciato nel 1978 libera, partendo dall’agricoltura, buona parte dell’economia cinese dai lacci dello statalismo e del dirigismo, dando origine ad un modello di capitalismo socialista unico al mondo. Il motto più famoso di Deng : ”Non importa se un gatto è bianco o nero, basta che acchiappi i topi” è l’espressione più compiuta del suo pragmatismo, esatta antitesi dell’ideologia comunista. Grazie alle riforme di Deng, proseguite dai suoi successori, il PIL della Cina è cresciuto in media del 10% all’anno per trent’anni, e, malgrado la crescita abbia conosciuto un rallentamento nell’ultimo periodo, dal 1978 al 2020 l’economia della Cina è aumentata di 15 volte. La Cina è oggi il primo produttore al mondo di manufatti, cereali, carne, pesce, frutta, verdure, patate, riso, tè, piombo, zinco, stagno, alluminio, oro, carbone, altre fonti d’energia. Il reddito pro capite dei cinesi è tornato sulla media del globo, per una popolazione di 1,4 miliardi di persone, fa capo alla Cina più del 10% delle esportazioni mondiali, causa questa di un mostruoso surplus nella bilancia dei pagamenti; l’attuale dirigenza intende ridimensionare questo sbilanciamento per privilegiare lo sviluppo interno, mantenendo comunque un ritmo di crescita superiore al 6%.

Se questi obiettivi saranno centrati, l’economia cinese supererà quella americana nel 2028, o nel 2030. Se questi ritmi di crescita saranno mantenuti, nel 2050 l’economia cinese sarà tre volte quella americana.

Quindi, torniamo al nostro primo quesito, moriremo cinesi?

Come in tanti casi simili, una crescita troppo veloce genera anche gravi scompensi e le crepe nell’economia cinese sono divenute di recente molto evidenti; la più clamorosa, o la più nota, è la bolla immobiliare di cui il sostanziale fallimento per miliardi di dollari della compagnia Evergrande è solo la punta dell’iceberg, decine di altre immobiliari sono in condizioni analoghe e tutti sappiamo quanto l’attività edilizia abbia spinto in alto il PIL cinese. Immediata conseguenza è la bolla bancaria, i cui contorni sono assai più incerti, non ci sono informazioni sicure, dato che le banche sono tutte di proprietà pubblica e strettamente controllate dal governo; ciononostante è noto che molte banche sono fortemente esposte con l’attività edilizia, e non solo, girano voci di numerosi e gravi default anche in altri settori imprenditoriali. Evidentemente il governo cinese non può permettersi bancarotte di queste dimensioni e quindi un intervento pubblico è più che probabile, ma neanche il bilancio statale della Cina può sopportare indenne questi colpi.

Altro elemento di criticità emerso di recente è la sorprendente nuova esplosione del contagio COVID, avvenuta proprio quando in tutto il resto del mondo l’epidemia sembra sotto controllo; non si sa quale sia la reale portata di questa nuova ondata, ma il duro lockdown imposto ai quasi venti milioni di abitanti di Shangai suscita numerosi interrogativi: vaccino inefficace, insufficiente percentuale di vaccinati, chissà cos’altro, ma la chiusura totale della New York cinese non passerà senza conseguenze.  

Molto più preoccupante di tutto quanto sopra è però il problema demografico; all’inizio degli anni settanta il governo cinese, nel timore di non poter sostenere, neanche sotto il profilo alimentare, una crescita troppo rapida della popolazione, varò la politica del figlio unico, a ogni coppia era permesso un solo figlio. Il controllo delle nascite veniva messo in atto con metodi veramente feroci, al secondo figlio la donna era costretta ad abortire e, spesso, veniva anche sterilizzata; dopo gli anni novanta si impiegarono mezzi più soft, ci si limitò ad imporre delle multe, il fine era sempre lo stesso. Di recente, però, non solo è stata abolita ogni restrizione, ma si sono avviate incisive campagne in favore delle famiglie numerose, anche con incentivi fiscali. Cosa è successo? Prima ci si è accorti del rapido invecchiamento della popolazione, poi si è toccato con mano un altro aspetto drammatico, la carenza di elemento femminile; all’epoca del figlio unico, nelle campagne infatti il figlio doveva essere maschio, per aiutare nei campi: le neonate femmine venivano soppresse: la realtà odierna è che il 15 - 20% dei giovani maschi in Cina non avrà mai una compagna.

Malgrado le misure prese o quelle che seguiranno, invertire un trend consolidato non è affatto facile. Diverse generazioni di figli unici hanno cambiato i lineamenti della società cinese, la “scarsità” di prole ha reso i bimbi preziosi (“Piccoli Imperatori”, così sono stati detti); i giovani cinesi di oggi non hanno conosciuto le difficoltà e le privazioni dei loro genitori, sono cresciuti protetti e coccolati, hanno studiato in scuole ed università prestigiose, grazie allo sforzo delle famiglie, non accettano sacrifici e privazioni, i figli sono un ingombro. Di conseguenza il tasso di crescita della popolazione è sceso allo 0,7%, addirittura inferiore alle magre medie dell’Europa, che può contare almeno sull’apporto dell’immigrazione, con tutti i problemi correlati.

Nel 2025 si conteranno oltre 300 milioni di cinesi oltre i sessant’anni, nel 2040 la popolazione di cinesi anziani avrà superato la metà del totale. Il fenomeno è aggravato dalla mancanza assoluta di un sistema pensionistico pubblico; solo i dipendenti delle grandi società hanno, tra i benefit, una copertura pensionistica, tutti gli altri devono contare sui propri risparmi o sull’assistenza dei figli. Tradizionalmente era la famiglia il vero welfare per i cinesi ed il sistema funzionava quando c’era abbondanza di figli e di nipoti, ma adesso??

Quanto sopra accennato introduce un altro aspetto critico della società cinese, che consiste nel divario tra le condizioni di vita delle classi agiate e acculturate e lo status dei disoccupati od anche dei contadini nelle campagne; si parla di una fascia di disagio che coinvolge centinaia di milioni di soggetti; il paradosso è che oggi la Cina conta con un numero di miliardari (in dollari) superiore a quello degli Stati Uniti ( 609 contro 552), ma, secondo la Banca Mondiale, solo nel 2010 ben 800 milioni di cinesi sono usciti dalle condizioni di povertà assoluta (meno di 1,90 $ di reddito giornaliero), altri 150 milioni vivono ancora al di sotto di questa soglia, mentre il 27% della popolazione vive con un reddito inferiore a 3,10$  al giorno; il tutto in assenza di un qualsiasi tipo di welfare. Non era certo questo il sogno del socialismo cinese.

Ma allora, tiriamo un sospiro di sollievo? Il “Dragone” ha i piedi d’argilla? Non deve far più paura?

Non è così, il sistema Cina ha dimostrato in più circostanze doti di resilienza inattese e l’esempio più eclatante lo dobbiamo ancora a Deng Xiaoping: nel giugno 1989 una importante dimostrazione di protesta giovanile e studentesca in piazza Tienanmen fu stroncata dall’intervento dei carri armati, causando centinaia o migliaia di morti. Sembrò che tutto dovesse crollare, il regime era tornato a mostrare la sua faccia feroce, il nuovo corso non appariva più credibile, il mondo intero parve voler isolare la Cina. Ma l’ineffabile Deng, che pur aveva personalmente organizzato la repressione, compì l’ennesima giravolta; partì per un tour nelle province del Sud, portando ovunque lo slogan “arricchirsi è bello”. Tanto bastò a stuzzicare lo spirito d’iniziativa, la propensione mercantile ed il gusto del rischio innato in quelle zone (Deng è ancora idolatrato a Shenzen, come da immagine); è proprio dal Sud, dal Guandong, dalla megalopoli di Shenzen, dallo Zejang, dal Fujan che parte la nuova fase dello sviluppo economico cinese.

 

La Cina non è più, o non è più solo la fabbrica del mondo, capace di sfornare prodotti di scarsa qualità a buon prezzo, è divenuta una fucina di innovazione tecnologica. Sono finiti i tempi in cui la Cina cercava di copiare malamente i modelli americani, oggi i giganti cinesi come Alibaba, Tencent o Baidu stanno dimostrando di poter raggiungere e superare gli americani Amazon, Google o Facebook. Nel campo delle telecomunicazioni la Cina è stata per decenni, dall’80 al 2000, terra di conquista per le imprese europee e giapponesi; oggi la Huawei esporta smartphone e 5G in tutto il mondo, mentre molti dei grandi gruppi europei sono semplicemente scomparsi. Chi avrebbe detto solo pochi anni fa che i social network più in voga del momento, come Tik Tok o Wechat, sarebbero stati prodotti cinesi?  Ma si può andare oltre, oggi la Cina è all’avanguardia nello studio dell’intelligenza artificiale, del riconoscimento facciale, della progettazione di smart cities; si assiste al fenomeno di ritorno in patria di scienziati cinesi emigrati in America, addirittura di stranieri che vanno a lavorare in Cina in settori di avanguardia. Xi Jin Ping ha dichiarato apertamente di considerare l’America in declino, in confronto alla Cina.

A questo balzo in avanti della tecnologia non poteva rimanere estraneo il settore militare: secondo studi del Pentagono l’espansione dell’arsenale strategico e nucleare cinese è mozzafiato; la Cina starebbe effettuando pesanti investimenti nella tecnologia dei missili ipersonici, ma anche nello sviluppo di diversi sistemi d’arma d’avanguardia: dalle armi ad energia diretta offensive e difensive, capaci di mettere in difficoltà i sistemi di difesa missilistica occidentali, a nuovi sistemi anti-satellite, anti-missile e anti-drone. Pechino starebbe anche incrementando la costruzione di basi missilistiche nucleari nella Cina occidentale, ciascuna delle quali in grado di ospitare un centinaio di silos, dotando il Paese della capacità di raggiungere con i propri Icbm anche gli Stati Uniti continentali. A riprova di tutto ciò sta l’aumento del budget militare cinese, che nel 2022 raggiungerà il 7,1% del PIL.

Nessuno può sapere come giocheranno nel futuro fattori di progresso e criticità, ma certo la Cina sarà comunque la prima potenza con cui dovremo fare i conti.

(Continua)

 

 

Inserito il:03/11/2022 10:29:01
Ultimo aggiornamento:03/11/2022 12:32:39
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