Aggiornato al 21/11/2024

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Voltaire

 

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La Rivoluzione Francese (2) – La crisi finanziaria

di Mauro Lanzi

 

Abbiamo visto con il precedente articolo struttura e funzionamento dell’Ancien Regime ed anche i motivi profondi per cui era entrato in una crisi strisciante; quello che fece precipitare gli eventi e rese la crisi irreversibile fu il collasso delle finanze del Regno.

Non dobbiamo meravigliarci più di tanto, era già accaduto in altre occasioni che una crisi della finanza pubblica, in concorso con l’incapacità di operare con equità ed efficacia la leva fiscale, avesse abbattuto regimi in apparenza solidi, come quello degli Stuart in Inghilterra, o il dominio inglese sulle colonie americane.

La crisi finanziaria in Francia aveva radici antiche, sostanzialmente la “grandeur” perseguita da Luigi XIV, con gli sfarzi di Versailles ed una serie di costose campagne militari; le entrate correnti del fisco non potevano coprire i costi crescenti di questa politica, quindi il ricorso all’indebitamento divenne prassi corrente. A differenza di quanto avveniva in passato i governi, non solo quello francese, non si rivolgevano più a banchieri stranieri, italiani, tedeschi, fiamminghi come nel Medioevo, ma al mercato finanziario interno, facendo leva sul credito che ogni governo legittimo riscuote nei confronti dei propri cittadini; la Francia era una nazione prospera, i titoli di stato venivano sottoscritti senza difficoltà. Il debito interno ha il vantaggio, rispetto al passato, che gli interessi sui titoli non vanno ad ingrassare banchieri stranieri, ma restano nel paese, la finanza è solo una partita di giro; l’aspetto negativo è che un eventuale default non colpisce banche straniere, ma i risparmiatori, cittadini della stessa nazione; le implicazioni politiche sono evidenti.

Il regno di Luigi XV continuò sulla stessa falsariga, guerre costose e sfortunate, spese di corte sempre crescenti, amanti soddisfatte con denaro pubblico; la dinamica del debito pubblico assume un ritmo allarmante.

Il problema, come sempre, esplode ad un cambio di vertice. Morto inaspettatamente di vaiolo nel 1774 Luigi XV, Luigi XVI si trova, suo malgrado, a dover fronteggiare un compito arduo oltremisura, anche per reggitori più capaci e preparati di lui, cioè impedire il collasso della finanza pubblica: in mezzo alla prosperità generale (e questo è il paradosso) il Tesoro si andava svuotando e la crisi finanziaria si avviava a divenire il motivo conduttore o, se preferite, la piaga purulenta della politica francese fino alla Rivoluzione.  Luigi ebbe anche dei buoni ministri, dei bravi tecnici, ma allora, come adesso, il problema di fondo non era tecnico, era politico, si dovevano reperire ingenti risorse, senza gravare sulle fasce più deboli, distribuire quindi più equamente l’onere dei tributi tra le classi sociali, condurre in porto una efficace riforma fiscale. La difficoltà della questione si palesò immediatamente con il primo, forse il migliore ministro delle finanze di quei tempi, Turgot, caposcuola della scuola fisiocratica: i fisiocratici rappresentavano una corrente di pensiero che riconosceva nell’agricoltura l’unico vero cespite della nazione. Ne derivava, per logica conseguenza che l’unico reddito da tassare, secondo loro, fosse quello della terra; e qui nasceva il problema perché il patrimonio fondiario era in larga parte detenuto da nobiltà e clero, esenti da imposte, mentre anche il piccolo proprietario (non parliamo di fittavoli o mezzadri) era tenuto a pagare la taglia al re, la decima alla chiesa, più i diritti feudali, in prestazioni o in natura, al signore del luogo!!

Turgot non era uno sprovveduto, iniziò con prudenza, con modesti interventi nella direzione di una maggiore equità sociale, come eliminazione delle corvees e delle corporazioni, liberalizzazione del commercio. Erano provvedimenti largamente insufficienti a raddrizzare il bilancio ed a soddisfare le aspirazioni della borghesia liberale, che ambiva a riequilibrare i rapporti tra le classi sociali, ed era anche preoccupata per la sorte dei titoli di stato sottoscritti, ma erano fin troppo per la nobiltà, che estromessa dal potere politico da Luigi XIV, ora si vendica respingendo furiosamente ogni riforma, ogni riduzione del suo status, anche quando si trattava di questioni marginali. Per l’ostilità dei nobili, ma anche della Regina (alla quale aveva negato dei fondi), Turgot è costretto a presentare le dimissioni, che Luigi XVI accetta, manifestando già in questa circostanza tutta la sua inadeguatezza: bene intenzionato, a volte perfino avventato nell’intraprendere, arretrava di fronte ai primi problemi, soprattutto davanti allo scontro con la “sua” nobiltà, sacrificando ad essa i collaboratori più capaci e fidati. Nel congedarsi dal Re, Turgot gli scrisse un breve messaggio che, letto oggi, ci appare un testo di straordinaria saggezza e lungimiranza:

 «Sua Maestà ha bisogno di una guida  lungimirante per evitare gli errori di Carlo I Stuart, finito decapitato, e del sanguinario Carlo IX. Non dimenticate, Sire, che fu la debolezza a mettere la testa di Carlo I sul ceppo e a rendere crudele Carlo IX

Così, liquidato Turgot, sul cammino di Luigi una cattiva stella pone l’uomo che, forse più di altri segnerà il suo destino: Jacques Necker, banchiere e finanziere ginevrino, due volte licenziato e due volte richiamato al governo, responsabile, certo senza intenzione, di alcuni passi decisivi verso il baratro. Necker aveva accumulato una ingente fortuna per sé e per la banca in cui lavorava, con alcune spregiudicate manovre speculative, che oggi verrebbero bollate senza mezzi termini come aggiotaggio o “insider trading”; ma tant’è, il successo cancella ogni macchia, il nostro passava per essere un genio della finanza!

Così, nel 1776, il genio fu chiamato a Parigi, nella posizione chiave di Controllore Generale delle Finanze, malgrado non avesse alcuna conoscenza reale della situazione francese, né un’esperienza specifica in materia di economia, né una filosofia od un progetto organico per la soluzione dei problemi del paese.   Necker, quindi, assunto l’incarico, operò come sapeva, cioè con il ricorso al credito: facendo leva sul suo prestigio personale, lanciò delle nuove emissioni di certificati di credito, che furono prontamente sottoscritte. Con questi fondi si risolvettero per l’immediato i problemi di cassa, tutti tirarono un sospiro di sollievo, senza riflettere sui veri problemi strutturali, che Necker aveva per un attimo nascosto.

Ma la crisi si avvicinava a grandi passi.

A dare la sveglia, fu, come spesso accade, la grande politica internazionale, nella fattispecie, la Rivoluzione Americana: dicembre 1773 è la data del “Boston Tea Party”, 4 luglio 1776 la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti. Convinto infine dai suoi ministri, un riluttante Luigi XVI decide nel 1777 di entrare in guerra contro gli inglesi. L’intervento francese (aspetto spesso trascurato dagli storici americani) risulterà decisivo: l’episodio chiave della campagna, la resa di Yorktown, fu determinato dal blocco della città, operato per terra dalle truppe di Washington e Rochambeau, ma anche e soprattutto per mare dalla flotta francese dell’ammiraglio De Grasse. La Francia purtroppo non trarrà alcun beneficio da questa vittoria, neppure il ritorno delle colonie americane, perse nella guerra dei 7 anni!! In compenso il debito pubblico francese esplodeva; il “servizio” del debito, cioè interessi più ammortamenti, che alla morte di Luigi XV richiedeva un’annualità di 93 milioni di “livres”, dopo questi eventi raggiunse rapidamente i 300 milioni, in un bilancio dello Stato che oltrepassava appena i 500 milioni.

Tanto per dare un termine di riferimento alla realtà italiana di oggi, su di un bilancio dello stato di circa 1000 miliardi, il Tesoro ha dovuto rimborsare quest’anno 400 miliardi di titoli scaduti e pagare 90 miliardi di interessi; non stiamo tanto bene neanche noi!!

Ma torniamo alla Francia di Luigi XVI; con i numeri sopra esposti, pressato da esigenze di cassa, Necker azzardò, forse senza rendersene conto, un passo epocale, cioè la pubblicazione, per la prima volta nella storia, del bilancio generale dello Stato (“Compte rendu au Roi”). L’intenzione di Necker era di guadagnarsi la fiducia dei risparmiatori, dimostrando un rassicurante attivo di bilancio: purtroppo si trattava di un falso grossolano, il bilancio era in pesante passivo, per dimostrare un attivo erano state derubricate alcune ingenti poste di spesa, come le spese militari e gli interessi sul debito.

Ma questo documento, così malamente taroccato, ebbe due conseguenze inattese. In primo luogo, ogni successiva richiesta di intervento in materia fiscale fu coperta di sarcasmi: se sei in attivo, perché chiedi soldi?? Un successore di Necker fu quindi costretto a smentire i dati del rendiconto, svelando la mistificazione: la perdita di credibilità dell’esecutivo divenne irreversibile; lo stesso Necker, pur già destituito, dovette abbandonare Parigi.

In secondo luogo, e questo fu l’effetto più rilevante, la scomparsa delle spese più importanti operò come una lente deformante, evidenziò le spese minori, in particolare quelle della corte: la Francia si convinse che la vera ragione del baratro finanziario erano gli sperperi di corte e nobiltà ( che in realtà costavano forse meno della nostra “casta”), tra cui si evidenziavano alcune malversazioni della famiglia reale, soprattutto, ma non solo, le leggerezze della regina, che teneva a Versailles una sua corte particolare, che sperperava somme ingenti sui tavoli da gioco, a Parigi, poi, sotto gli occhi di tutti. Poca cosa in valore assoluto, ma di grande effetto: così, Maria Antonietta, la straniera, prima austriaca sul trono di Francia, si avvia a diventare Madame Deficit” e con lei tutta una classe politica veniva fatta bersaglio di critiche roventi e sdegno da parte di tutto il paese. La buona immagine del re viene sommersa dall’impopolarità della regina e della corte; nessuna spiegazione viene più accettata, si diffida, a ragione, di ogni dato del governo!! Si compie, insomma, il primo passo di un percorso attraverso il quale una semplice crisi finanziaria precipita verso una crisi politica, (di cui peraltro erano pronte le premesse), complice il discredito che investe d’ora in poi un’intera classe dirigente.

Il licenziamento di Necker, dopo gli eventi narrati, era inevitabile, la crisi finanziaria era divenuta, se possibile, ancora più grave e confusa. Nella disperata ricerca di una via di uscita, il Re aveva chiamato alle Finanze, nuovi personaggi, alcuni anche molto validi, uno sopra tutti, Calonne, ex funzionario della Controlleria Generale, che conoscendo quel mondo dall’interno, aveva elaborato un valido progetto di riforma fiscale, capace forse di salvare il Regno, ma si era scontrato, come tutti, con l’insormontabile resistenza di nobiltà e clero ed era, quindi, stato sacrificato come i suoi predecessori.

 Luigi appare in questi frangenti come stordito dalle difficoltà; dormiva, a volte russava durante le riunioni o scompariva per dedicarsi alla caccia o alla sua officina di fabbro. Spesso, era costretta a sostituirlo nei consigli di stato la Regina: portano la sua firma alcuni degli atti decisivi di questo periodo, dalla nomina degli ultimi responsabili delle finanze, fino al richiamo di Necker, che lei detestava e che si era anche screditato col suo precedente incarico, ma era reclamato a gran voce dalla borghesia preoccupata per la sorte dei titoli di stato detenuti.

Giusta preoccupazione: il 16 Agosto 1788 il Tesoro sospende i pagamenti, è la bancarotta: pochi giorni prima era stata annunciata, per il 1°maggio1789   la convocazione degli Stati Generali, nel disperato tentativo di coinvolgere la nazione nella ricerca di una soluzione alla crisi: l’intenzione era apprezzabile, ma la via scelta era inadeguata, lo strumento politico obsoleto, l’errore, tra tutti, si rivelerà fatale.

 

Inserito il:13/11/2024 11:07:30
Ultimo aggiornamento:13/11/2024 11:58:26
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