Sebastiano del Piombo (Venezia, 1485 – Roma, 1547) – Ritratto di Papa Clemente VII
Le grandi famiglie: I Medici - 5 - L’età dei Papi
5 Clemente VII - Il sacco di Roma
(seguito)
di Mauro Lanzi
Adriano VI
La logica successione a Leone X sembrava dovesse spettare al cugino Giulio, appoggiato da una nutrita schiera di cardinali, molti dei quali nominati di fresco dal cugino, ma insanabili contrasti che si frapponevano tra lui ed altri autorevoli candidati, come il Wolsey ed il Farnese, fecero sì che la scelta ricadesse, in forma inattesa, su di un olandese, sostenuto dall’imperatore, di cui era stato anche precettore, Adriano Dedel di Utrecht, che salì al pontificato con il nome di Adriano VI. Adriano era un uomo pio, frugale e devoto che arrivò a Roma con il fermo intento di riformare la Chiesa, forte anche dell’appoggio convinto di Carlo V, che vedeva la necessità politica di un radicale cambiamento.
Adriano condannava senza esitazioni le tesi luterane, ma era assolutamente convinto che la Chiesa dovesse redimersi, tagliò le ingenti spese per feste e banchetti, cercò di imporre una morale cristiana a vescovi e cardinali (compito improbo!), limitando l’accumulo degli appannaggi e obbligando i grandi prelati a risiedere nelle loro sedi di pertinenza, per svolgere il loro compito di pastori anime, infine sostenne la convocazione di un Grande Concilio, per sanare il dissidio con i luterani e rifondare la Chiesa: ovviamente, così facendo, si andava creando molti nemici tra tutti coloro che avevano visto ridotti i loro privilegi, compreso il popolo di Roma al quale mancavano lo sperpero di denaro, i divertimenti ed i bagordi offerti dai suoi predecessori.
Durò poco Adriano, ultimo papa straniero prima di Wojtila, solo venti mesi, ed alla sua morte si parlò da più parti di avvelenamento: il popolo romano fece trovare affisso alla porta del suo medico un cartello: “Al Salvatore della Patria”.
Ancora una volta la successione si rivela difficile, il concistoro è teatro di violenti scontri tra le varie fazioni, ma alla fine, grazie ad intrighi, promesse e corruzione, il Cardinale Giulio de’ Medici riesce a trionfare ed il 9 dicembre 1523 sale al trono col nome di Clemente VII; aveva quarantacinque anni.
Clemente VII
Il pontificato di Clemente VII fu senza dubbio uno dei più drammatici di tutta la storia del papato: Clemente aveva dato prova di buone capacità politiche ed amministrative, sia come consigliere dei precedenti due papi, sia come reggitore della città di Firenze, ma giunto al soglio pontificio sembrò perdere la consueta lucidità di giudizio. A Clemente facevano sicuramente difetto le doti di bontà, magnanimità e bonomia, che avevano reso ben accetto il cugino; in compenso era preparato e competente in molte materie, astuto e scaltro come appare dai suoi ritratti, sicuramente intelligente, ma privo di genialità e di visione politica; l’eccessiva fiducia negli intrighi e nella propria scaltrezza gli fece perdere in più occasioni il senso della misura, soprattutto non riuscì mai a capire che il Papato non poteva più giocare impunemente, come pedine sulla scacchiera, le potenze europee, l’una contro l’altra, non poteva più preporre i mediocri interessi personali e familiari ai più vasti interessi della comunità ecclesiale: così attirò la più grande sciagura mai vista su Roma e sul papato e ridusse se stesso schiavo del potere imperiale.
In particolare, esisteva un elemento condizionante per il Papa e la sua politica, cioè la convocazione del Grande Concilio, auspicato da Adriano VI, ed ora richiesto a gran voce dall’Imperatore, come unico rimedio possibile alla deriva luterana; Clemente, del concilio, non volle mai saperne, lo temeva, come tutti i papi, per i condizionamenti e le limitazioni al potere papale che potevano derivarne ed ancor più per il timore che potessero tornare a galla alcune palesi irregolarità nella sua elezione: così, meschine motivazioni ritardarono di due decenni un ‘iniziativa essenziale per la Cristianità ed indussero Clemente ad infauste decisioni.
I tempi non erano facili per chiunque fosse al papato: la Francia del giovane re Francesco I non poteva accettare il predominio di Spagna ed impero riuniti. Appena salito al trono (gennaio 1515) Francesco I si era preoccupato di riconquistare il ducato di Milano, perso dopo la battaglia di Ravenna (1512); sceso in Italia con un poderoso esercito, che incorporava 9000 lanzichenecchi, Francesco di era scontrato con gli Svizzeri al soldo del Duca di Milano, Massimiliano Sforza, presso Marignano, nel settembre 1515, in quella che verrà detta la “Battaglia dei Giganti”; gli svizzeri combatterono fino a tarda notte il 13 Settembre e si dovettero arrendere il giorno seguente per l’arrivo dei veneziani, alleati della Francia.
Questo però non è che l’inizio dello scontro; il dominio francese su Milano dura poco, già nel 1524 i francesi sono costretti ad abbandonare il ducato, la ritirata disastrosa causa gravi perdite all’esercito francese, compreso il famoso Baiardo, il cavaliere senza macchia e senza paura: Clemente, che fino a quel momento aveva parteggiato per l’impero, timoroso di un potere eccessivo degli imperiali e pressato dalle richieste di un concilio, apre trattative con Francesco con cui giunge ad un’intesa segretissima. Confortato dall’appoggio papale, Francesco che aveva a mala pena respinto l’invasione di truppe spagnole in Provenza, mette mano, contro il parere di tutti i suoi consiglieri, anche della madre Luisa di Savoia, ai preparativi per una nuova invasione della Lombardia: riunisce il più formidabile esercito mai visto in Francia, tutta la nobiltà francese si arruola nelle schiere di cui lo stesso Francesco assume il comando; in suo aiuto giungono contingenti papali , di Venezia, anche un forte nerbo di mercenari svizzeri. Inizialmente Francesco ottiene dei brillanti successi, Milano gli apre le porte, gli spagnoli abbandonano la Lombardia, ma poi deve arrestarsi di fronte alla insuperabile difesa di Pavia, che è costretto a stringere d’assedio; qui lo coglie la controffensiva degli imperiali, guidati dal marchese di Pescara e da Carlo di Borbone, che era, tra l’altro, un fuoriuscito francese. L’esercito francese viene chiuso in una morsa formata dalla città di Pavia e dal recinto della Certosa, dalle cui mura gli archibugieri spagnoli bersagliano la cavalleria francese. Il 24 febbraio 1525 l’esercito francese conosce una delle più disastrose sconfitte della sua storia, muoiono più di 10,000 soldati, il Re è fatto prigioniero, la nobiltà francese è decimata o distrutta (tra gli altri Monsieur De La Palice, rimasto famoso per le sue “verità”).
Francesco rimase nelle prigioni spagnole per più di un anno: fu liberato a fronte di concessioni assai onerose, la restituzione della Borgogna, la rinunzia al Milanese, il reintegro di Carlo di Borbone nei suoi possedimenti.
Clemente, alla notizia di Pavia, si era affrettato a cambiare partito, rappacificandosi con l’imperatore, ma quando Francesco, liberato, tornò in Francia, con un ennesimo voltafaccia Clemente, non solo esentò il Re dal rispetto del giuramento dato, ma concluse con Francia, Inghilterra, Venezia e Firenze la lega di Cognac (1526), in funzione antimperiale.
Fu un errore drammatico: il papa contava sulle difficoltà di Carlo V, stretto tra la rivolta luterana e la minaccia dei Turchi in Ungheria, ma Carlo reagì prontamente, convocando a Spa la Dieta Imperiale, nella quale venne riconosciuta vasta tolleranza alle tesi di Lutero; così il Papa divenne di fatto il miglior alleato dell’eresia. Questo accordo risultò tardivo per fronteggiare la situazione ungherese, dove la sconfitta di Mohacs, agosto 1526, con la morte del re Luigi II Jagellone, rese di fatto improponibile un qualsiasi intervento imperiale: l’Ungheria cadde per due secoli sotto il dominio turco.
Così l’Imperatore rivolse la sua attenzione all’Italia, con il fermo proposito di punire il papa per i suoi ripetuti tradimenti; prima gli scagliò contro i Colonna, potente famiglia romana da sempre in conflitto con i Medici. Clemente, costretto a rifugiarsi in Castel Sant’Angelo, dovette piegarsi, promettendo di uscire dalla Lega e di restituire le proprietà ai Colonna; poi, passato il pericolo, riunite nuove forze, attaccò i Colonna, incurante dello spergiuro, distruggendo borghi e castelli, senza misericordia neppure per donne e bambini.
Carlo allora decise che la misura era colma: ordinò ai suoi generali, il Borbone ed il Lannoy di marciare su Roma: peggio, consentì ad un cavaliere tirolese, George von Frundsberg di levare un esercito di volontari in Germania, tutti luterani, che si arruolavano senza soldo, con la sola prospettiva di annientare l’Anticristo, che si annidava a Roma. Lo stesso Frundsberg si diceva portasse con sé un cappio d’oro, con cui impiccare il papa.
Clemente, nella sua miope presunzione di astuzia, non aveva valutato la realtà sul campo: alla Lega di Cognac mancava l’apporto del principale protagonista, la Francia. Il paese era uscito esausto dal precedente conflitto, lo stesso Francesco sembrava piegato dalla sconfitta e dalla prigionia, svuotato di energie, incapace di intraprendere un’azione qualsiasi. Le forze papali e dell’alleato veneziano erano state affidate al duca d’Urbino, un Della Rovere, che si dimostrò presto un traditore ed un doppiogiochista: così, quando il miglior comandante militare delle truppe pontificie, Giovanni de’ Medici, detto “Delle Bande Nere” (nel bel ritratto a lato), fu ferito a Governolo Po, in uno scontro con i tedeschi e poi morì di cancrena, Roma rimase senza difese.
Clemente cadde preda di un abbietto terrore: inviò 100,000 ducati a Carlo di Borbone, che aveva sostituito il Frundsberg, morto in aprile per un colpo apoplettico, per arrestare l’avanzata: ma ormai le truppe, i luterani soprattutto non davano più retta a nessuno, volevano solo saccheggiare e distruggere la città dell’Anticristo. Quando ormai le truppe imperiali erano in vista di Roma, il papa tentò finalmente di organizzare la difesa della città, invitando anche i comuni cittadini a salire sulle mura: ma i romani, nel loro eterno scetticismo, si rifiutarono persino di distruggere le strade ed i ponti di accesso alla città, erano convinti che tutto si sarebbe risolto in un temporaneo cambio di padroni, come era accaduto tante altre volte in passato. Non fu così, non fu proprio così.
Il 6 maggio 1527, le truppe imperiali guidate dal Borbone, che fu colpito a morte nell’assalto, fecero irruzione in Roma.
E’ impossibile descrivere o anche immaginare l’orrore e lo scempio che ne seguì.
Tutto ciò che una città può temere dalla furia di una forza militare che non conosce disciplina, tutti gli eccessi che la ferocia dei Tedeschi, l’avidità dei Fiamminghi, la lussuria degli Spagnoli potevano commettere, i disgraziati abitanti di Roma lo dovettero subire: non furono risparmiati né chiese né conventi, né nobili né preti né cardinali, né giovani né anziani, donne o bambini: né i Goti, né i Vandali si erano comportati in questo modo. E lo scempio non si arrestò dopo alcuni giorni, ma proseguì per mesi, mentre l’esercito della Lega, che avrebbe potuto attaccare facilmente gli imperiali alle spalle ritardava colpevolmente la sua avanzata per il tradimento del duca di Urbino: Clemente non aveva saputo scegliere neppure i suoi comandanti militari! Le truppe imperiali si ritarano solo dopo dieci mesi per il diffondersi di una pestilenza, lasciandosi alle spalle una città distrutta e vuota, più di metà della popolazione era perita: il peggior massacro della sua storia Roma, capitale della cristianità, lo dovette ad un Papa e ad un sovrano cattolico!!
Clemente era riuscito a salvarsi in Castel Sant’Angelo, dalle cui mura Benvenuto Cellini sparava sugli assedianti, e lì rimase assediato sette mesi, per poi fuggire ad Orvieto travestito da venditore ambulante: ben misera conclusione per una politica fatta di raggiri ed intrighi.
Il sacco di Roma ebbe due conseguenze impreviste, lo scisma anglicano e la cacciata dei Medici da Firenze.
Cominciamo dallo scisma: Enrico VIII d’Inghilterra, come tutti sanno, ebbe in totale sei mogli: due le ripudiò, due le fece giustiziare, una morì poco dopo la nascita dell’agognato erede maschio, l’ultima Enrico non riuscì a sistemarla perché schiattò lui prima.
La causa dello scisma fu la prima moglie, Caterina d’Aragona (a sinistra), per la quale da tempo Enrico richiedeva l’annullamento del matrimonio, sia per la mancanza di un erede maschio, sia, soprattutto, per la seduzione abilmente condotta da una sua cortigiana, Ann Boylen; Enrico adduceva come motivo della sua richiesta il fatto che Caterina era stata sposata con il fratello, fatto che rendeva addirittura incestuoso il rapporto, anche se Enrico questo matrimonio lo aveva fortemente voluto ed aveva ottenuto anche una dispensa papale all’uopo.
L’annullamento di un matrimonio regale non era, in assoluto, una novità, esistevano dei precedenti illustri, ma come ogni cosa a quei livelli era un fatto politico, poco contavano il diritto internazionale o quello canonico; ma proprio da un punto di vista politico esisteva un ostacolo insormontabile, Caterina era la zia dell’imperatore Carlo V: Clemente ricevette la visita della delegazione inglese guidata dal Wolsey quando era esule ad Orvieto e Roma era occupata dagli imperiali, non era certo il momento di offendere l’imperatore. Si cercò di prendere tempo, si istruì un processo presieduto da un legato pontificio, che si protrasse, senza possibilità di una soluzione. Alla fine il Re, persa la pazienza, licenzia il Wolsey, che si sottrae ad un processo solo perché muore prima; poi ottiene dal Parlamento l’annullamento del matrimonio con Caterina e sposa ufficialmente la Boylen (1533). Al Papa non restò altro che la scomunica del Re, cui seguì immediatamente lo scisma: Thomas Moore che aveva preso il posto di Wolsey, tentando con ogni mezzo un’intesa con Roma, rifiuta di sottoscrivere lo scisma e sale lui stesso al patibolo.
Lo splendido ritratto di Hans Holbein sembra esprimere in pieno la statura morale del personaggio, “Un uomo per tutte le stagioni” lo aveva definito Erasmo da Rotterdam.
Paradossale notare che l’anno stesso in cui, con l’Act of Supremacy, Enrico si proclamò capo della chiesa inglese, il 1535, morì per cause naturali Caterina e l’anno successivo Ann Boylen salì al patibolo; così in un breve arco di tempo scomparvero le due donne che erano state la causa dello scisma e della nascita della Chiesa Anglicana.
L’altra conseguenza degli errori politici di Clemente è il nuovo esilio dei Medici; il 19 maggio 1527 Firenze, approfittando scaltramente delle difficoltà del papa, assediato a Castel Sant’Angelo, si ribella ed esilia per la terza volta i Medici.
Durante i primi anni del pontificato di Clemente, il governo di Firenze, pur sempre con la finzione delle permanenti cariche repubblicane, era stato affidato al cardinal Passerini, affiancato dai due ultimi giovani discendenti della famiglia, Ippolito figlio di Giuliano, duca di Nemours e Alessandro, figlio naturale del Papa. Il governo particolarmente inetto del Passerini eccitò la rivolta dei Fiorentini contro i Medici, ma comunque forte era l’aspirazione a tornare liberi.
La perdita di Firenze sembra pesasse a Clemente più che la devastazione di Roma; ecco che allora il grande artefice di intrighi architettò un piano per rientrare in possesso della città; nel 1529 il Papa si recò a Barcellona, per prosternarsi davanti al carnefice della città santa, dal quale aveva patito tante indegnità. Tra i due sovrani fu concluso un patto, segretissimo, che sarebbe entrato in vigore dopo la conclusione della pace tra Francia e Spagna, che si realizzò nel 1529 (pace di Cambrai o pace delle due Dame). I punti essenziali del trattato di Barcellona furono:
- Ritiro dei francesi dall’Italia e quindi rottura dell’alleanza del Papa con Francesco.
- Cessione di territori papali ed indennizzo alla Spagna.
- Isolare Firenze dai suoi alleati (Venezia, in primo luogo).
- Fine dell’indipendenza di Firenze, da ottenersi anche con l’aiuto di truppe imperiali.
- Governo di Firenze assegnato ad Alessandro, che Clemente insisteva a qualificare come figlio del duca d’Urbino.
- Matrimonio tra Alessandro e Margherita, figlia naturale di Carlo V (che aveva nove anni).
Il programma ebbe scrupolosa esecuzione: la Francia uscì dall’Italia, gli Sforza tornarono momentaneamente a Milano, Ferrara e Venezia furono “perdonate” con condizioni di pace magnanime: solo per Firenze non ci fu tregua, malgrado gli sforzi diplomatici della Signoria. Mentre sulla città convergevano le stesse truppe che avevano devastato Roma, al comando del Principe d’Orange, i fiorentini decisero di non cedere: furono arruolate milizie, la città fu messa in stato di difesa, le fortificazioni esterne ridisegnate dallo stesso Michelangelo, trasformatosi per l’occasione in ingegnere militare; dieci mesi durò l’eroica difesa di Firenze, in cui si distinse il comandante militare delle milizie esterne alla città, Francesco Ferrucci (a sinistra) che riportò anche brillanti successi sulle truppe imperiali, in particolare a Volterra, dove il Ferrucci inflisse una cocente sconfitta agli imperiali guidati da un pugliese, Fabrizio Maramaldo.
Purtroppo i fiorentini avevano affidato il comando generale della difesa a Malatesta Baglioni, signore di Perugia, che si era già inteso con l’Orange al quale aveva ceduto la sua stessa città: sembra che avesse concluso anche un accordo col Papa.
Così il Baglioni, anziché assecondare i piani del Ferrucci che voleva stringere l’Orange in una morsa, tra Firenze e le sue truppe che uscivano da Pisa, iniziò trattative di resa con l’Orange.
Francesco Ferrucci, lasciato solo, fu sconfitto e fatto prigioniero nella battaglia di Gavinana (3 agosto 1530); benché ferito, fu condotto sulla piazza di Gavinana ed ucciso da Fabrizio Maramaldo (“vile tu uccidi un uomo morto”), episodio famosissimo della storia italiana, fatta, in ogni tempo, di eroi, vigliacchi, traditori e, aihmé, di Papi.
Dopo la morte del Ferrucci la resistenza di Firenze crollò e la città si arrese a condizione che venisse garantita la permanenza delle istituzioni repubblicane, sotto l’egida dell’imperatore.
Ma un papa abbietto e spergiuro non poteva tener fede alla parola data: come la città aprì le porte, tutti i migliori cittadini, esponenti della Signoria, furono messi a morte, altri imprigionati od esiliati, al governo della città fu insediato Alessandro, il bastardo del papa, a Firenze si stabilì anche una guarnigione straniera per la quale fu costruita una fortezza, la Fortezza da Basso che esiste ancora.
I Medici mai avevano avuto bisogno di una forza militare per dominare la città, ma i tempi erano cambiati e la statura morale della famiglia anche. Dall’epurazione si salvò solo Michelangelo, per la sua fama, ma anche perché il papa voleva che terminasse il suo lavoro alle cappelle medicee, cosa che l’artista fece quasi con rabbia, perché costretto, lasciando il lavoro volutamente incompiuto, alla morte del papa (1534).
Gli ultimi anni del papato di Clemente trascorsero in una condizione di umiliante soggezione all’imperatore, che lo soggiogava non solo con la forza militare, ma anche e soprattutto con la minaccia del Gran Concilio, cosa che Clemente temeva più di ogni altra: così il Medici dovette incoronate Carlo imperatore a Bologna (1530) ed assistere impotente allo scisma inglese: la scomunica di Enrico VIII fu l’ultimo atto del pontificato di Clemente.
Poco prima era riuscito, con un suo estremo artifizio diplomatico, a far sposare Caterina, figlia del defunto duca d’Urbino, col secondogenito figlio del re di Francia, Enrico; le nozze furono officiate dallo stesso papa, a Marsiglia (1533).
Clemente morì il 25 settembre 1534 circondato dal disprezzo e dall’odio generale: dopo la sua morte la sua tomba fu profanata, il cadavere estratto, trafitto da una spada, stava per essere gettato nel Tevere. Il gesto fu estremo e deprecabile, ma è difficile ignorare i misfatti e le sofferenze che il suo papato aveva inflitto alla Città Santa; certo, Clemente era riuscito a riconfermare la signoria medicea su Firenze, ma a quale prezzo!!
Non solo la fine delle libertà fiorentine, ma anche il sacco di Roma, la Riforma Luterana trionfante in Germania, lo scisma inglese, l’asservimento dell’Italia al dominio spagnolo; Clemente era stato uomo di ingegno indiscutibile, di grande capacità politica e diplomatica, ma anche subdolo e spergiuro, soprattutto privo di una visione vasta e generosa, troppo legato a mediocri interessi personali e familiari, primo fra tutti la preoccupazione per il grande concilio ( che sarà poi convocato, troppo tardi, dal suo successore Paolo III), poi la continuità del dominio mediceo a Firenze, da assicurare ad ogni costo.
Il suo lascito fu il peggiore tra tutti gli esponenti di casa Medici, a conclusione di un pontificato intriso d’inganni e di nefandezze.