Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Bob Orsillo (Lewistone, Maine, USA - ) - World Factory

 

“La costruzione della Società di Massa” - EPILOGO

(seguito)

 

di Camilla Accornero

 

Dopo mesi e mesi trascorsi a capo chino sui libri, a leggere e rileggere ossessivamente sempre le stesse parole, compresi, mio malgrado, di occupare una posizione non dissimile da quella dell’Osservatore e, per estensione, degli Eredi stessi, di cui ormai potevo considerarmi uno stimato membro.

E per quanto tali considerazioni fossero annichilenti e non lasciassero presagire la benché minima possibilità di miglioramento nel mio prossimo futuro, potevo se non altro tentare di agire in prospettiva e dare un’opportunità in più ai posteri; per quanto riguardava la mia miserevole esistenza ero più che certo che mai avrei avuto modo di assistere ai significativi mutamenti cui auspicavano gli Eredi. L’unica cosa che avrei conservato per sempre di quel periodo della mia vita, e che nessuno sarebbe mai riuscito a togliermi, sarebbe stata l’acquisizione di una profonda conoscenza del linguaggio, e non uno qualunque! Con gli anni, infatti, avevo imparato a padroneggiare con una non indifferente scioltezza e fluidità un linguaggio ricco di vocaboli e aggettivi, suppellettili retorici e, talvolta, qualche ridondanza… alla fine, negli anni della vecchiaia, sono riuscito a prendermi la soddisfazione di allontanarmi dalla sterilità del linguaggio che mi era stato inculcato sin da piccolo. La fierezza con cui la Società di Massa si era sempre espressa per esaltare la neolingua sarebbe stato un altro dei tanti quesiti irrisolti che mi sarei portato dietro nella tomba. La penuria di un linguaggio scarno, povero di lemmi e costrutti complessi, dove la semplicità, la ripetitività, la velocità e le abbreviazioni erano elementi da esaltare non poteva che essere il riflesso di una società in procinto di ripiegarsi su stessa e regredire.

Imparai ad esprimermi coerentemente a quanto ci si sarebbe aspettati da una persona della mia levatura, benché, a mio modesto parere, un uso appropriato e corretto della lingua avrebbe dovuto essere appannaggio di tutti. E fu proprio l’ammirazione per tale ricchezza linguistica e per il desiderio che altri, molti altri, potessero avere l’opportunità di goderne e capire quanto potenti potessero essere le parole, se opportunamente utilizzate, a darmi la forza per non lasciarmi abbattere dalle sconfitte che stavamo accumulando nell’incapacità di raggiungere gli obiettivi auspicati in quanto Eredi. Tuttavia, in un modo o nell’altro, ero determinato a dare un contributo, anche se non corrispondeva esattamente a quanto ci fossimo prefissati in un primo momento. Forse la generazione di Eredi di cui facevo parte non sarebbe riuscita a soverchiare il sistema o a convincere gli individui-massa a passare dalla nostra parte, ciononostante potevamo mettere in atto un programma in grado di insegnare a quante più persone possibili a non sottostare a despoti che si divertivano a fingersi degli “Dei”.

Fu così che decisi quale sarebbe stato il mio personale contributo: l’insegnamento. Dopotutto, era il solo ambito in cui potevo affermare con sicurezza di possedere le necessarie competenze. Le generazioni a venire avrebbero dovuto conoscere il linguaggio dei nostri avi, comprenderlo e parlarlo, e sarebbero state in grado di riconoscere i giochi linguistici, le metafore e la logica soggiacente ai discorsi retorici, per imparare a riconoscere quando veniva fatto un uso strumentale del linguaggio e di come, quest’ultimo, attraverso le parole affabulatorie di un buon oratore, fosse capace di condizionare e piegare la volontà di migliaia di persone.

Anno dopo anno incominciai a redigere manuali interi di grammatica, comparando il linguaggio degli antichi e la neolingua, per poi passare alla stesura di racconti pregni di figure retoriche, excursus, divagazioni… ammetto che con il tempo ero caduto succube del loro fascino.

Un giorno come un altro, mentre mi dedicavo alacremente alla stesura di un manuale, venni improvvisamente distratto da un’idea… al momento dei fatti la definii addirittura “un’illuminazione”, ma con il senno di poi mi rendo conto che di tanto in tanto avevo ancora la cattiva abitudine di sopravvalutare le mie capacità e prendermi troppo sul serio. Ciononostante l’ossessione che avevo sviluppato per le metafore mi aveva permesso di figurarmi la posizione di Osservatori ed Eredi.

Da quanto avevo iniziato a cimentarmi in letture proibite e scoperto la ricchezza inesauribile delle parole, la mia mente era stata piacevolmente stuzzicata da pensieri che sino ad allora non avrei mai creduto possibile essere frutto della mia immaginazione, sempre più fervente e florida di colori e concetti astratti. Dapprincipio avevo quasi creduto di essere totalmente impazzito, infatti, dacché ne avessi memoria, persino i miei sogni erano sempre stati sui monotoni toni del grigio. Una monocromia angosciante. Fu piacevole, tuttavia, cambiare abitudine e iniziare a sognare a colori, lasciarmi trasportare dai voli pindarici della mia mente e cedere all’alettante inganno dei sogni ad occhi aperti; in altre parole, avevo imparato cosa volesse dire dare libero sfogo all’immaginazione. Una pratica inconsueta nella Società di Massa, dove qualsiasi sogno non era personale, ma instillato subdolamente nelle menti dei cittadini da una tartassante pubblicità.

Fu così che iniziai a figurarmi la società come un teatro… un enorme palcoscenico in cui veniva messa in scena la commedia della vita. Al botteghino all’ingresso, dove venivano acquistati i biglietti, fasciati di tutto punto nelle loro divise, se ne stavano i devoti seguaci della Lobby, la cui cieca lealtà era stata ripagata con la promessa di essere messi al corrente dei piani che i plutocrati avevano pensato appositamente per la Massa. Lavoravano rispettando ossequiosamente le regole, dimostrandosi i perfetti impiegati, per ambire, in futuro, ad essere scelti come successori dell’élite, in virtù del meccanismo adottato dalla Lobby per la trasmissione del potere. I bottegai, abili doppiogiochisti, rivolgevano i loro sorrisi beffardi ai poveri spettatori, tra i quali si confondevano consapevoli ma impotenti Eredi. Questi ultimi, così come gli Osservatori prima di loro, godevano del privilegio, se poi si poteva realmente considerare tale, di mantenere un punto di vista esterno sulla scena, e non di far parte delle marionette, meglio note come individui-massa, che venivano manovrate dai fili mossi dalla Lobby; regista indiscusso dello spettacolo. Il loro “privilegio” tuttavia era limitato dal fatto stesso di essere semplici spettatori poiché, per quante rimostranze avessero potuto sollevare, rimanevano comunque all’interno del teatro, controllato dai registi medesimi. La loro prospettiva li condannava a vedere un’illusoria felicità animare i volti degli individui-massa, privati di individualità e dell’essenza stessa che fa di un essere umano una Persona.

Da questo avvilente ritratto della società compresi, in qualità di Erede, di avere ancora un punto di vista limitato, per così dire circoscritto alla società di cui ero parte. Ma forse, per soverchiare il sistema bisognava cambiare ulteriormente prospettiva: accanirsi contro la Lobby era risultato infruttuoso, viceversa conoscere le motivazioni per le quali si era posta alla testa di una società siffatta avrebbe potuto dare risultati inattesi.

Avevano ottenuto la società dell’eterno presente, senza tempo né luogo, immutabile, popolata da individui apparentemente diversissimi, liberi di autodefinirsi assecondando ogni capriccio… eppure indistinguibili tra loro. Un curioso paradosso!

Avevano il controllo totale sull’individuo-massa, ma qual era il fine ultimo del gioco di potere? In quale disegno si inseriva il piano della Lobby?

Noi Eredi ci assumemmo l’onere di scoprirlo, o per lo meno di lasciare ai posteri un punto di vista altro, quello di chi rimane fuori dal teatro. L’altro quesito che ancora rimaneva in sospeso era se in futuro qualcuno avrebbe dato credito alle nostre parole. Non potevamo saperlo, nessuno di noi poteva avere una tale certezza, non ci restava altro che sperare, sperare che la nostra voce non venisse dispersa dal sibilo del vento, che le nostre parole non morissero bruciate dal rogo della censura, che le nostre idee, per quanto folli e controcorrente, non scivolassero nell’oblio.

Ci piaceva autodefinirci studiosi, ricercatori e artisti, una compagine ben diversificata di menti pensanti, -o tali almeno credevamo a buon diritto di poterci considerare-, dedite a creare opere di ingegno, che andavano dall’arte alla scienza, dalla letteratura alla matematica, ricoprendo tutti i campi dello scibile, eppure, nella loro diversità, tutte, dalla prima all’ultima, avevano un punto in comune: la ricerca del bello (non meramente inteso nella sua sola accezione estetica) e della verità. Non potevamo scindere le due cose, le nostre opere, qualunque fosse la loro peculiare natura, non potevano distaccarsi dalla dimensione etica.

In altre parole ci definivamo… intellettuali.

Onestamente, alla veneranda età a cui sono giunto, non sarei in grado di quantificare né gli errori commessi in tutta la mia vita, né le piccole vittorie conseguite. Forse dovrei addirittura esimermi dal pronunciare giudizi su quanto è stato, poiché, qualunque fosse il risultato della disamina, non cambierebbe nulla: il passato è passato, inalterabile. Eppure, sembra quasi un passo scontato, raggiunta una certa età, quello di voltarsi indietro e ripercorrere le tappe della propria vita. La vecchiaia non porta necessariamente saggezza, non ho mai creduto a questa tiritera che spesso ho sentito ripetere e di cui sovente ho anche letto, tuttavia apporta alcuni considerevoli cambiamenti nella vita di un uomo. E di certo non mi riferisco agli inevitabili acciacchi dell’età, o alla memoria che pian piano sbiadisce o alla perdita, neanche così graduale, delle funzioni motorie… quello a cui vorrei fare riferimento è un concetto che mi è sempre stato molto a cuore: il tempo. Come muta la sua percezione quando si diventa vecchi! Guardo al passato e scavo nei miei ricordi non per nostalgia, o per paura che da un giorno all’altro non ci sarà per me una nuova alba, ma per mettere ordine, cercare il dettaglio che mi sono lasciato sfuggire nel momento in cui vissi gli eventi in prima persona. Riguardo la mia vita come se fosse un film, da spettatore. Ho esaurito le battute come attore protagonista. Non mi sento più il credulone docente universitario, assoggettato ai dettami della Società di Massa, né l’uomo ribelle che ha scoperto la vita solamente dopo averne buttata più della metà nel cesso -e perdonate questi scivoloni di stile!-, sono solo un vecchio, che condivide con le versioni più giovani del proprio Io la disperata ricerca della verità.

Lungo il cammino della mia vita più di una volta ho creduto di poter stringere fra le mani la verità, tenerla in pugno. Eppure ora, seduto su una sedia a dondolo, con tutta probabilità vecchia quanto il suo proprietario, e stringendo con mano tremante la penna che a stento riesce a seguire le righe del taccuino, ho solo più una convinzione: quella di non conoscere affatto la verità. E di non averla mai conosciuta davvero. Il dubbio è l’altra dimensione della vecchiaia, quantomeno per me. Sono persino arrivato a credere di avere ragione di dubitare di quello in cui credevo!

Nel riportare le mie memorie, nutro ancora la speranza che menti più giovani e riflessive siano in grado di cogliere quei dettagli che ancora mi sono sfuggiti, quei nessi soggiacenti agli eventi che ne hanno permesso un determinato decorso e non un altro, o le ragioni per cui alcuni individui assumano comportamenti lesivi della libertà altrui… e potrei allungare la lista ogni giorno finché avrò vita, ma a nulla servirebbe per ottenere delle risposte. Lascio ai posteri, dunque, l’arduo compito di cercare una possibile verità.

Un ultimo consiglio custodirà questo testo: non bisogna lasciarsi abbattere dalle avversità per quanto esse siano capaci di trascinarci in fondo al baratro e impedirci di scorgere l’ultimo barlume, perché, anche se è triste doverlo ammettere, se la bellezza è un elemento decorativo dell’esistenza, il dolore ne è parte fondante. Quel che posso aggiungere è che il fallimento non deve necessariamente rappresentare in toto una sconfitta, ma può essere un florido terreno di rinascita.

 

Inserito il:15/10/2019 16:29:39
Ultimo aggiornamento:15/10/2019 16:39:15
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