“Madre di Dio Feodoroskaija” - Scuole del Nord - inizio del XIX sec. - Fondo oro
Dinnanzi a un’Icona
di Giovanni Boschetti
Pavel Florenskij, al cospetto di un’Icona della Madre di Dio, era convinto di trovarsi di fronte, non a una raffigurazione della Vergine, ma alla Santissima come presenza.
Lui non ha mai negato che tale immagine restasse comunque un tramite di accesso a Dio e che non fosse Dio stesso.
Le Icone rimarcano la loro distanza ma al contempo, nelle loro raffigurazioni, si propongono di evocare.
Teodoro Studita nel IX secolo dà la risposta più matura delle tesi iconofile uscite nel 787 dal secondo Concilio di Nicea, il rapporto tra immagine e prototipo è pari a quello tra ombra e corpo reale, ovvero se l’ombra è inscindibile dal corpo che la proietta, così da annunciarne la presenza, tuttavia nessuno sarebbe così folle da confondere l’ombra con il corpo di cui essa è pure ‘Angelos’. Per quanto inscindibile dal prototipo, l’Icona non è identica a esso: solo Cristo è, e resta, autentica carne del Verbo e non le sue raffigurazioni iconografiche.
Florenskij presuppone che l’Icona compia la propria funzione intermediaria ed evocatoria con una presenza che deve essere supposta.
Lui affianca la presenza reale del prototipo nell’immagine, conferendo a quest’ultima un pieno carattere all’incarnazione.
Ciò è evidente in un passo, in uno dei suoi capolavori saggistici, ‘Le porte regali’, dove Florenskij fa subire al termine ‘somiglianza’ uno slittamento semantico verso l’identità: quando vicino a noi c’è una somiglianza a Dio, possiamo pensare: “Ecco l’immagine di Dio, ma immagine di Dio significa che vi è il Raffigurato da quell’immagine, ovvero il suo Archetipo.
Il canone della Madre di Dio di Vladimir non è dunque una semplice rappresentazione di Maria, ma la Vergine stessa che è talmente presente nella raffigurazione della medesima da trasfigurarla in un’immagine di ‘altra natura’; non una semplice immagine, ma il divino stesso che essa rappresenta, tanto da essere esplicitamente definita da Florenskij come ‘un fatto di natura divina’.
Le parole di Florenskij sono inequivocabili: “E noi diciamo ai pittori d’Icone - non siete voi che avete creato queste immagini, non siete voi ad aver rivelato queste vive idee ai nostri occhi festanti, ma sono esse stesse che si sono rivelate alla nostra contemplazione; voi vi siete limitati a rimuovere ciò che ce ne velava la luce . E ora noi, non già la vostra maestria, vediamo l’essere pienamente reale degli sguardi stessi”
L’Icona diventa, così, una delle onde propagatrici della realtà che l’ha suscitata. A tale proposito risulta significativa la similitudine della stessa Icona come ‘finestra’ da cui si affaccia il mondo divino. “Come attraverso una finestra vedo la Madre di Dio, la Madre di Dio in persona, e Lei prego, faccia a faccia, non la sua raffigurazione; è una tavola con dei colori ed è la stessa Madre del Signore.” Così scrive Pavel Florenskij a proposito della Vergine di Vladimir; tale similitudine ha, di fatto, il valore di conferire all’immagine il valore di un ‘tramite’ che, nello steso momento che rappresenta la Madre di Dio, diventa essa stessa Madre di Dio, perdendo, in quel mentre, il valore di semplice tramite di una realtà che la trascende. Ciò è possibile perché la stessa finestra si configura, per Florenskij, non come un canale di luce, ma come la Luce medesima.
Difatti il suo rapporto con la Luce viene definito come una ‘identità ontologica’, ovvero di sostanza: una finestra è una finestra in quanto attraverso di essa si diffonde il passaggio della luce, per cui la stessa finestra che ci ‘dà luce è luce’ essa stessa, e non semplicemente ‘somigliante’ alla luce.
Lo stesso vale per la raffigurazione iconografica in quanto ridurla a essere una semplice tavola di legno con dei colori significa snaturarla nella sua identità di Icona, perché essa non è inerte materia priva di vita, ma materia animata dall’azione divina, non morta immagine di Dio, bensì corpo vivo di Dio. È pertanto in questo senso che devono essere comprese le parole di Florenskij secondo cui l’Icona, come ogni pittura che voglia dirsi autentica opera d’arte Sacra “ha lo scopo di spingere lo spettatore oltre il limite dei colori e della tela percepibili con i sensi”.
Assunta cristianamente come testimonianza dell’Incarnazione, l’Icona, per Florenskij, è un segno che vuole significare l’incarnazione, per cui essa lo è nel senso di realizzarla concretamente, al pari del pane e del vino eucaristici. Se così non fosse, la stessa Icona sarebbe allegoria e non simbolo, inteso dal punto di vista di Florenskij, ovvero compiuta quanto inscindibile unità di sensibile e spirituale, fenomeno e noumeno, divino ed extra divino così come richiede la verità del cristianesimo in quanto religione del Dio incarnato, ovvero del simbolo per eccellenza.
Per cui cercare Dio, al di là delle raffigurazioni che lo rivelano e non in esse, sarebbe come voler cercare Dio al di là del Corpo di Cristo che lo ha rivelato. Come non ha senso considerare il Volto e il Corpo di Cristo ‘come se fosse Dio’, così non ha senso considerare le immagini come una semplice metafora di Dio. Le raffigurazioni iconografiche si rivelano non per essere trascese e abbandonate, ma perché le medesime, non essendo corpi morti, ma vivi nel senso letterale del termine, sono materia che perde la propria inerte pesantezza per farsi corpo palpitante di Dio.