Tom von Dreger. (Austrian, 1868 - 1949). Portrait of Arthur Schopenhauer.
Come raggiungere la felicità secondo Schopenhauer
di Anna Maria Pacilli
Ciò che si è contribuisce alla nostra felicità assai più di ciò che si ha.
A. Schopenhauer
Non è mai un caso, credo, che scegliamo “a naso” letture che, anche a livello inconscio, riflettano, in qualche modo il nostro stato d’animo attuale. E’ ciò che ho provato leggendo i “Consigli sulla felicità” di Arthur Schopenhauer, che risale ai tempi del liceo, ma che ora acquisisce per me una valenza diversa.
Alla base dell’essere felici, per il filosofo, vi è la salute, intesa sia come benessere fisico, ma anche e soprattutto emozionale. E questo pare abbastanza ovvio.
Ma l’intelligenza reca felicità?
Secondo il filosofo uno spirito vivace e penetrante è il migliore compagno per l’uomo e nessuna compagnia potrà mai sostituire o superare la gioia che si prova a stare da soli ma in buona compagnia delle proprie idee e dei propri pensieri.
Nessun avvicendarsi di gente, feste e divertimenti potrà surrogare la gioia del sapere e della serenità d’animo. Come anche, ovviamente, nessuna solitudine intelligente potrà colmare il vuoto di una mente ottusa.
Per la nostra felicità, dunque, nulla è più importante della nostra personalità, di come noi siamo, perché questo è un bene che nessuno ci potrà mai togliere.
Noi siamo la fonte della nostra stessa ricchezza e nessun bene esteriore potrà colmare una solitudine interiore.
Ma è anche vero che la felicità ha due pericolosi nemici, il dolore e la noia.
Bisogni e privazioni esterne generano il dolore; la sicurezza e l’abbondanza generano noia.
Ecco perché l’uomo intelligente sceglie una vita il più possibile appartata: più trae da se stesso, meno necessita dall’esterno ( anche Aristotele sostiene che “La felicità appartiene a coloro che bastano a se stessi”).
Il dolore è ciò che più spesso avvertiamo, rispetto alla gioia.
Se stiamo sperimentando il dolore a causa di una ferita, seppure piccola, è verso essa che focalizziamo la nostra attenzione, e non alla salute complessiva, che diamo per scontata.
In questo senso Aristotele sostiene che sia più proficuo per noi allontanare i mali, piuttosto che rivolgere la nostra attenzione alle piacevolezze del vivere.
Vivere felici, eudemonologicamente, significa vivere meno infelici. In generale, si può essere in perfetta armonia solo con se stessi.
Per quanto possa essere salda una amicizia o forte un sentimento d’amore, le differenze di personalità e di temperamento comportano pur sempre una certa dissonanza.
La profonda pace del cuore la si trova nella solitudine.
Eppure la solitudine non è un sentimento innato: quando si viene al mondo, non si è da soli: l’amore per la solitudine può sorgere dalla esperienza e dalla riflessione, non da una tendenza originaria.
Si impara a godere della solitudine con l’avanzare degli anni: il bambino piange se lasciato da solo, i ragazzi ed i giovani si aggregano tra loro facilmente, a poco a poco imparano, parzialmente, a godere dello stare da soli, ma è difficile che passino da soli un’intera giornata.
L’intensificarsi della tendenza all’isolamento è considerabile una conseguenza del valore intellettuale di un individuo, un effetto dell’esperienza vissuta e della raggiunta consapevolezza della scadente qualità morale ed intellettuale della maggior parte degli esseri umani.
La vera amicizia, l’interesse spassionato per il bene ed il male dell’altro è una specie di “mostro marino”, che ci chiediamo se sia mai esistito.
Per lo più predomina l’interesse personale, l’egoistico accentrare su di sé l’attenzione.
L’invidia, inoltre, è nemica della felicità.
Seneca sostiene che sia utile rallegrarsi ” delle cose che abbiamo senza fare confronti: mai sarà felice colui che si tormenta perché c’è qualcuno più felice”.
Apprezzare, dunque, quel che si ha, accresce il valore della presenza, mentre anelare a quel che non si ha, acuisce il dolore per l’assenza.
Il possesso di ciò che non abbiamo, se riusciamo ad ottenerlo, ci recherà subito una maggiore felicità, ma ben presto ci adopereremmo a fare in modo di non perdere quei beni: per lo più è la perdita delle cose a rivelarci il loro vero valore.
Così come quando un evento negativo ormai è accaduto, e non si può più cambiare quella situazione, non dovremmo neppure fare in modo che ci sfiori il pensiero che le cose potevano andare diversamente, perché in questo modo si diventa solo punitori di se stessi.
Ripensarci dovrebbe avere il solo scopo, se si sono commessi errori, non di giustificarli, come di solito facciamo, ma di cercare di non ripeterli.
Dunque, se la felicità fosse determinata dalle passioni, solo da giovani si sarebbe davvero felici.
La vecchiaia, invece, vissuta con intelligenza, ha in sé un aspetto contemplativo che la rende unica nel suo gioire.
Mai come nella vecchiaia l’uomo si giova di quanto “ha in se stesso”…anche se tutto ha un limite: “Quien larga vida vive mucho mal vive” ( Chi vive una lunga vita, vive molti mali).