Linda Graham (Lancashire, England, 1955 - ) – Time, Tide, Tempest (2005)
Sfruttamento e inquinamento umano degli oceani
di Vincenzo Rampolla
Uno studio francese pubblicato da Nature Sustainability rivela per la prima volta l’effetto delle infrastrutture umane sui mari e sugli oceani del pianeta. L'uomo colonizza gli oceani a un ritmo inarrestabile. C’è poco da sorprendersi. Supera quello sulla terraferma e l'oceano è in pericolo. C’è bisogno di uno studio per rendersene conto? Che significato hanno la comparsa di spazi desolati, l'urbanizzazione e il degrado degli ecosistemi? E la desertificazione, le foreste vergini dell'Amazzonia e le campagne incolte? Questi mali in realtà riguardano l'oceano e la terra messi insieme, rivela il rapporto che valuta l'impronta oceanica dell’insieme delle infrastrutture umane. Finalmente! Era ora…
Si calcola che 32.000 km² di fondale marino siano colonizzati da cavi, oleodotti, turbine eoliche offshore, tunnel o altre strutture portuali e costiere. Un'area equivalente a quella della regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Circa il 99% di queste infrastrutture si trova in Zone Economiche Esclusive (ZEE) che coprono il confine costiero, l'area marittima appartenente a uno Stato e che copre in genere una fascia di 370 km oltre la costa, cioé l'1,5% di queste aree.
Questa è solo la punta dell'iceberg. A volte infatti le conseguenze si avvertono fino a centinaia di chilometri oltre la zona esclusiva d’azione, in particolare modificando la composizione chimica dell'acqua, cambiando il regime idrologico o creando inquinamento acustico che influisce sulla vita marina e sugli ecosistemi.
Improvvisamente, la vera impronta oceanica di queste infrastrutture assume il suo valore reale: 3,4 milioni di km², ovvero circa 10 volte il valore calcolato e più di 6 volte la superficie della Francia metropolitana (escludendo i territori francesi d’oltremare), con densità di istallazioni variabili sotto i 100 m, tra 100m -10 km e oltre 10 km. Per le turbine eoliche offshore, ad esempio, intorno al parco eolico gli autori hanno definito pari a 5 km l’area interessata dall'infrastruttura. Viene citato anche l'esempio della centrale elettrica a onde di Pentland Firth in Scozia, che modifica la diffusione delle onde fino a una vastissima area circostante pari a 700 km. Il paradosso è che alcune di queste installazioni vengono erette per rispondere proprio ai danni causati dall’uomo. Negli Usa, ad esempio, gran parte della costa naturale è stata sostituita da muri di cemento o frangiflutti destinati a ridurre l'erosione dovuta all'innalzamento del livello dell'acqua. Pensiamo anche al gigantesco progetto del Mosé di Venezia, che prevede la realizzazione di 78 dighe galleggianti sulla laguna per far fronte alle inondazioni o al proliferare di giganteschi parchi eolici, come quello di Hornsea One in Gran Bretagna che copre 4.700 km².
La costruzione marittima influenza e frammenta gli ecosistemi esistenti creando nuovi habitat artificiali, come gli allevamenti di acquacoltura che sostituiscono le distese fangose, rileva il documento. Che dire dei grandi complessi turistici il più delle volte totalmente privi della minima virtù ecologica? Non è detto comunque che ogni installazione debba essere contestata e bocciata. I parchi eolici o gli impianti di marea, ad esempio, contribuiscono alla riduzione del riscaldamento globale e alcune infrastrutture che vietano la pesca consentono il ripristino delle popolazioni ittiche. Per ridurre l’impronta oceanica, i tecnici tentano diverse soluzioni, come l'uso di mangrovie o barriere coralline naturali per sostituire i frangiflutti di cemento; se non si interviene questa potrebbe aumentare di un altro 70% entro il 2028, con il pianeta Terra sempre più simile a Waterworld, il film del futuro apocalittico, con l’uomo condannato alla ricerca degli ultimi lembi di terra in un mondo sommerso dalle acque.
L’uomo e l’oceano interagiscono in vari modi. Da un altro studio di oggi emerge, ad esempio, che circa il 60% degli oceani è influenzato da attività umane incontrollate e che la loro salvezza richiede un intervento urgente. Dall'inquinamento alla pesca eccessiva, le attività umane hanno un forte impatto sulla salute degli oceani e per la prima volta vengono valutati gli effetti e la velocità con cui stanno modificando l’habitat. Negli ultimi 10 anni, in media l'impatto degli esseri umani sugli oceani è quasi raddoppiato. Potrebbe raddoppiare anche nel prossimo decennio se non si fa nulla per impedirlo. Se vogliamo salvare gli oceani, non possiamo lavorare solo su un elemento. È un problema legato alla combinazione di molti fattori che richiedono di essere risolti, dice B.Halpern, professore all'Università della California (Santa Barbara). Infatti oltre al problema del cambiamento climatico che riscalda, acidifica e eleva il livello dei mari, oltre alla pesca commerciale e all'inquinamento del deflusso, c’è l’aumento del trasporto marittimo e il devastante inquinamento da plastica.
Tra gli aspetti più eclatanti nelle variazioni annuali dell'impatto globale dell'uomo sugli oceani tra il 2003 e il 2013 si registra uno spettacolare aumento delle temperature in un periodo di tempo relativamente breve. Con il loro studio, i ricercatori americani offrono un'interessante e nuova visione globale che potrebbe permettere di immaginare adeguate politiche di gestione sostenibile. Rivelano che l'Australia, l'Africa occidentale, le isole dei Caraibi orientali e il Medio Oriente sono le aree di maggiore preoccupazione. E gli habitat costieri come le mangrovie, le barriere coralline o le praterie di alghe marine sono tra gli ecosistemi più minacciati.
Veniamo alle buone notizie. In alcune aree, gli impatti delle attività umane sono diminuiti: Giappone, Corea del Sud, Gran Bretagna e Danimarca. È la prova, affermano gli studiosi, che le politiche mirate possono fare la differenza. Le soluzioni sono note e alla nostra portata, abbiamo solo bisogno della volontà politica e sociale di agire, conclude Ben Halpern.
Cumulando i differenti studi eseguiti sugli effetti provocati da un grande numero di attività umane, sembra che gli oceani e gli ecosistemi marini siano colpiti più di quanto non si fosse osservato in precedenza. Il risultato è una mappa del mondo dell'influenza umana sull'oceano, rappresentazione molto significativa e visione mai studiata prima sulla Terra, centrata sulla Francia e facilmente accessibile con Google Earth e qualche click. A questa si aggiunge il lavoro di un team americano del Centro nazionale per l'analisi e la sintesi ecologica (NCEAS) che ha redatto un atlante planetario delle influenze umane sull'oceano, con i risultati raccolti in 4 anni di lavoro. Finora gli studi erano concentrati su un'attività (pesca, riscaldamento, ecc.) o su una regione (Atlantico, Mediterraneo, ecc.). Venti oceanografi del NCEAS hanno raccolto dati globali su 14 grandi ecosistemi marini e 17 attività umane, tra cui l'intrusione di specie invasive, la pesca pelagica, l'apporto di nutrimenti esterni e l'acidificazione del mare. Le misure riguardano gli effetti sul plancton, sulle barriere coralline, sulle popolazioni ittiche o sugli ecosistemi bentonici (in fondo all'oceano). La mappa dà i massimi effetti concentrati in settori molto localizzati nei Caraibi o nel Mare del Nord, con la maggior parte di tutti gli oceani classificata nella fascia medio alta degli effetti.
Una prima conclusione? L'impatto delle attività umane è maggiore di quanto precedentemente ipotizzato. Gli autori hanno determinato un indicatore, compreso tra 0 e 20, per indicare l'entità dell'influenza umana su una piccola area. Progettato su un planisfero, questa notazione ha dato una mappa del mondo variamente colorata. Le aree con un punteggio inferiore a 1 e 4, quasi risparmiate, rappresentano una minuscola porzione e sono principalmente le regioni polari, seguite dalla costa settentrionale dell'Australia e da piccole aree sparse nell'Oceano Pacifico e lungo le coste del Sud America, Africa e Indonesia. Le regioni più colpite sono il Mare del Nord, il Mar Cinese Orientale e Meridionale e il Mare di Bering. Altre regioni molto colpite sono in Europa, Nord America, Caraibi, nonché su alcune coste cinesi e del sud-est asiatico. Sull'atlante, il colore più comune è l'arancione (punteggio compreso tra 8,5 e 12), oltre il 12 c’è il rosso. In totale, nel 40% degli oceani del pianeta, gli ecosistemi sono gravemente minacciati.
Una seconda conclusione sorge da un più attento esame dell’acidificazione dei mari.
La causa principale dell’acidificazione dei mari è la capacità degli oceani di assorbire CO₂dall’atmosfera. Anche se il fenomeno porta ad una riduzione della CO₂ presente nell’aria perché un quarto della CO₂ che produciamo finisce inglobata negli oceani, l’aumento dell’effetto serra viene rallentato, ma porta gli oceani a diventare sempre più acidi.
Quale il risultato? Numerose conseguenze sugli ecosistemi, dallo sbiancamento dei coralli, alla perdita di alghe, alla riduzione dei livelli di ossigeno, oltre alla degradazione dell’ambiente marino, già grave di per sé. L’acidificazione degli oceani ha conseguenze dirette sull’uomo perché riduce enormemente la quantità di alimenti ittici pescati.
Utilizzando i dati raccolti sulla Terra e dallo spazio, la NASA ha registrato per 15 anni le variazioni in aumento della concentrazione di CO₂ e la sua distribuzione mondiale. Alla fine delle misurazioni nel 2015, il massimo ha raggiunto 402 ppm (parti per milione); oggi siamo a 418 ppm. Un ennesimo studio appena pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences dimostra che nel 2019 il ritmo di acidificazione degli oceani è il più grande e il più veloce da 300 milioni di anni! Nell'Atlantico, le acque più acide sono rilevate in prossimità delle regioni equatoriali, mentre quelle a più basso valore di acidità sono quelle del sud e nord Atlantico.
Per terminare, i dati raccolti - dicono unanimemente tutti gli studi - forniscono informazioni decisive per stimare, regione per regione, quali attività umane possono essere continuate e quali devono essere ridotte, sospese o trasferite. Non era quello che volevamo?
Nel momento in cui stiamo per affogare, d’improvviso ci risvegliamo e ci affanniamo a correre a misurare il livello dell’acqua. A nessuno è venuto in mente di chiudere il rubinetto.
(consultazione: google earth; futurascience - c.deluzarche; a.b.bugnot - nature sustainability; science; aaas (american association for the advancement of science; b.s.halpern; nathalie mayer; jean-luc goudet; magdal3na - fotolia; i.autissier wwf francia)