Vincent Van Gogh ((Zundert, Olanda, 1853 - Auvers-sur-Oise, Francia, 1890) - Campo di grano con volo di corvi
Conoscere Van Gogh
di Vincenzo Rampolla
Un precedente articolo sul Grande Pablo l’avevo intitolato Aimer Picasso.
Ripeterlo per Van Gogh è rischioso. Impossibile. Più che amare, Conoscere Van Gogh meglio si addice. Conoscere per attivare la coscienza, ha detto qualcuno. Vincent ha un caratteraccio, è difficile e selvatico. Poco si sa dalle tre sorelle e dal fratello minore. Solo Theo il fratello maggiore lo ama, lo capisce, lo mantiene. Per conoscerlo non vale esaltarsi alla vista dei suoi dipinti, stupefarsi per il suo tratto nel disegno e compatirlo, facendo di lui un eroe generoso, incompreso e tradito dal destino. Per conoscerlo bisogna viverci accanto, ascoltarlo, mangiare al suo tavolo, vedere la sua stanza, curiosare tra le sue cose, sentire il puzzo di sudore che emana. Che pensa di sé? E degli altri? Parlano le sue lettere. Tutte vanno lette, per seguirne la vita fin da giovanissimo, l’ambiente familiare, i sogni, gli amori e le aspirazioni. Di ognuno le lettere sono lo specchio dell’anima e del cuore, ne dipingono la coscienza, scritte per rivelare le gioie, confidare i dolori e per domandare, chiedere, implorare. Nulla dare. Così Napoleone, con gli scritti a Giuseppina e per quelle dei Condannati a morte della Resistenza e di Mandela agli amici, di Bukowski alle amanti. È fasullo e vuoto, presuntuoso, conoscere un individuo senza avere letto e studiato i suoi scritti. Vincent scrive in francese, inglese e fiammingo a una ventina di persone. Più di 800 lettere in otto anni, 640 di queste al fratello, sette al mese, due la settimana. E a Theo mendica i fiorini per colori e tele, per la pigione, la carta e il bordello e in quegli otto anni produce oltre 860 tele e 1200 disegni, senza contare gli oli distrutti da lui e dai rigattieri incuranti.
Nel rapporto con Theo c’è l’orgoglio: Theo, non voglio diventare il tuo protetto.
C’è la supplica bugiarda: Salva la tua amicizia, anche se non puoi più finanziariamente darmi aiuto. Mi succederà di bussare ancora alla tua porta, in difficoltà per una ragione o un’altra, ma lo farò senza pregiudizi, per darmi pace, più che per esigere o per sperare l’impossibile.
C’è il rimprovero maligno: Finora non sei riuscito a vendere nulla, né a un buon prezzo e neppure calandolo, e a dire il vero mi sa che non ci hai mai provato…
C’è la rabbia introversa: … come molti altri, hai da ridire su di me, sul mio modo di fare, sul mio abbigliamento, su quello che dico, cose abbastanza importanti e a prima vista impossibili da correggere, per continuare a distruggere con accanimento, man mano che passa il tempo, fino a indebolire sempre di più le nostre relazioni fraterne.
Vincent è inquieto, violento. Theo riservato, paziente, amorevole. Vincent artista solitario, sporco e trasandato. Theo lavoratore serio, incravattato, gentile, educato, affabile. Vincent maldestro, irritabile, antipatico, scorbutico. Theo generoso, prudente, sensibile. Vincent irascibile. Theo pacato, conciliante, attento. Vincent scostante. E tra i due un profondo amore fraterno che aleggia senza misura, identico in entrambi, fatto di reciproca dedizione, uguale tenerezza, medesima caparbietà. Poco più che ventenne, senza amici vive molto isolato. Segue ogni giorno funzioni religiose anche di culti diversi dal suo, legge e traduce la Bibbia in varie lingue, nelle ore di lavoro e in quelle libere e notturne e continua a disegnare con assiduità. Instradato da uno zio paterno e da un giovane istitutore si prepara agli esami di ammissione alla facoltà di Teologia dell’Università di Amsterdam, ma l’esito finale è negativo e può solo ricevere il titolo di predicatore popolare. Al termine di un trimestre di noviziato, per il suo temperamento impulsivo e indipendente, i superiori non lo ritengono idoneo al titolo di evangelizzatore. Riesce alla fine a strappare un incarico temporaneo di evangelista laico nella regione del Borinage, il villaggio minerario di Wasmes, nel sud del Belgio. Dominato da una crisi religiosa, trasforma in chiesa una capanna. Pieno di sensi di colpa, smette di lavarsi per sembrare minatore, la faccia lucida di nera polvere, gli occhi fissi sgomenti nel bianco. Dopo essere entrato in miniera, protesta con il Direttore perché migliori la paga e le condizioni di quegli esseri. Si trasferisce in una baracca, dà tutto il suo stipendio, mangia gli avanzi, l’erba, dona i vestiti, cerca scarti di carbone per le stufe. Regala il letto, dorme sulla paglia, porta su di sé il dolore e le sofferenze dell’intero villaggio. Gli Ispettori gli tolgono l’incarico perché ha svilito la dignità sacerdotale e offeso Dio e la frase più gentile che si meriteranno è: Qualunque maiale è migliore di loro. Chiude ogni pratica religiosa, cessa di credere nella bontà del prossimo. Da quel momento ignora Dio e gli uomini, inizia a dipingere e urla al mondo: Voglio soffrire per l’arte. Vincent Van Gogh è il più egoista degli uomini, sgarbato, arrogante, superbo. Scontroso con commercianti, vicini, fratelli, sorelle e in perenne conflitto con il padre pastore calvinista, di mestiere prete di paese. Incostante, vaga inquieto tra i negozi d’arte dello zio paterno Cor, proprietario della più grande casa d’arte internazionale del tempo, la Goupil & Cie, inviato alle filiali di Parigi, Bruxelles, Londra, Amsterdam, ammaestrato senza via d’uscita: critica le scelte dei clienti facendoli allontanare e non vende stampe.
Non ama, non sa amare, non riesce a provare un amore sincero. A 21 anni s’innamora di Ursula, figlia della padrona di casa ove vive in affitto a Londra. Già legata in segreto, lo respinge perché spiantato, troppo giovane e troppo brutto, capelli rossi e lentiggini, troppo corte le gambe e larghe le spalle, Quel rifiuto lo fa crollare in una profonda crisi di sconforto. L’anno dopo, a Etten nel Brabante (Paesi Bassi), nella nuova parrocchia ove il padre è stato trasferito, si innamora della cugina Kate, figlia di un pastore protestante, vedova con bimbo. A tutti i costi deve vederla, incurante dei suoi rifiuti. S’impunta. Incaponito, per qualche istante davanti ai genitori di lei arriva a esporre una mano alla fiamma di una lampada. Invano. Nel 1882 inizia a cimentarsi nella pittura, soprattutto disegno e acquarelli e conosce Sien (Maria Hoornik), prostituta trentenne dal viso butterato dal vaiolo, alcolizzata, incinta e con un altro figlio. La cura e ne fa la sua modella. Malata di sifilide gli trasmette la gonorrea e viene ricoverato all’ospedale dell’Aia, ove resta 23 giorni. Nonostante l’opposizione di parenti e amici è fermamente determinato a sposarla. Dopo un anno si stacca da lei; vent’anni dopo, Sien si sarebbe lanciata in un canale, un giorno di novembre e il suo corpo sarebbe finito in una fossa comune. Ad agosto 1884 si stabilisce a Nuenen, nuova residenza dei genitori. Qui Margot Begemann un’agiata trentanovenne con cui Vincent ha una relazione, innamoratissima dell’artista, avversata dalle famiglie di entrambi, tenta il suicidio con la stricnina. Trascorso un anno, il paese è in fermento perché corre voce che Vincent sia il padre del bambino atteso da Gordina de Groot, una giovane contadina disposta a farsi ritrarre. Cade l’accusa, ma il curato cattolico proibisce ai parrocchiani di continuare a posare per lui. A fine 1886 si trasferisce a Parigi. Assiduo cliente del cabaret Tambourin gestito in boulevard Clichy da Agostina Segatori, ex modella di Degas, ha una relazione con lei e può decorare le pareti del locale con i suoi dipinti. Quando lei lo molla, scornato s’infiamma per riavere i quadri, sacro pegno d’amore per la padrona. Crea imbarazzo e sdegno negli altri, ad Anversa litiga con i maestri dell’Accademia che lo rimandano ai corsi inferiori. Non gli importa, bada solo ai fatti suoi, a bere, dipingere e andare a puttane. In bocca si fa fissare davanti 10 denti d’acciaio, con un sorriso raccapricciante d’esaltato. Insopportabile per chiunque gli sia vicino, donne, uomini o bambini, ad Arles, con una petizione al Sindaco, per le crisi schizofreniche e le sbronze, 80 cittadini ne chiedono l’internamento. Antisociale e pericoloso, mette in fuga Gauguin terrorizzato dal tentativo di essere colpito nel sonno con un rasoio e si falcia un lembo d’orecchio; avvolto in un giornale lo porta al bordello in dono alla sua preferita, la prostituta che l’aveva “tradito” con l’amico. Inguaribile bizzoso e permaloso, attacca il fratello. C’è la vigliaccheria: E non basta, se ci aggiungi il mio passato e che tu nel negozio Goupil sei una persona rispettabile, un signore, mentre io non sono che me stesso, la pecora nera, il grande puttaniere. Muore sucida a 37 anni, sconosciuto e in miseria. Sotto la canicola di luglio, si spara al costato buttatosi su un letamaio, unico giaciglio di cui si sente degno, rientra a casa e passa la notte intera seduto nel letto a fumare la pipa. Pensa al sacrificio finale, sostenuto da un’ostinata fede in sé stesso: La vita è breve per tutti e il problema sta nel farne qualcosa di valore. Della casa d’infanzia di fronte alla chiesa, ha impresso in testa il giardino con alcune tombe di pietra. Su una è inciso: Vincent Van Gogh - 1852 - Lasciate che i pargoli vengano a me, giacché a loro appartiene il REGNO DI DIO (Luca, 18,6). È la tomba del fratellino nato morto un anno esatto prima di lui, stesso giorno. Per anni Vincent legge la propria tomba quotidianamente e non ci vogliono Freud né Jung e neppure psicologi o psicanalisti per dire che quella pietra gli inocula nel cranio il verme della psicosi della sopravvivenza, della convinzione che lui non sarebbe nato senza quella morte, del senso di colpa e del crudele desiderio di espiazione. La morte è la prima realtà di cui ha coscienza e con cui a sue spese deve imparare a convivere. Trapela da molte lettere, mai da una tela o da un disegno. Al funerale è seguito solo dal fratello, dal fido dottor Gachet con il figlio e da quattro amici venuti da Parigi, Drien Borger, Lucien Pissarro, Emile Bernard e le pére Tanguy, bottegaio di colori e articoli per artisti, modello e collezionista.
A gennaio 2020 sono ripartito per Auvers-sur-Oise, dove Vincent è sepolto sotto un manto di edera, accanto al fratello morto sei mesi dopo, minato nel sistema nervoso. Forte il piacere di rivederne appena possibile la tomba e ritornare agli anni in Francia, vissuti accanto alla sua edera. In quel periodo gran parte dei miei fine settimana erano a conoscere pieghe e ombre del suo mondo e a scavare nella storia e nell’intimità della sua follia. Lavoravo a Parigi e vivevo a due passi dalla Direzione della Società. Perché decidere un giorno di cambiare casa? Perché andare ad abitare a due ore d’auto dall’ufficio? Quale invisibile mano mi aveva spinto proprio nel villaggio dove Vincent era vissuto prima di morire. Quella mano mi aveva condotto al suo cimitero, per ripercorrere i luoghi dov’era vissuto, dove aveva dipinto, dove aveva chiuso la sua missione, attraverso il colore e il delirio della solitudine. Quante volte avevo calpestato il sentiero che percorreva sotto la canicola per entrare nei campi dei suoi quadri, anche nel giorno del suo ultimo dipinto, quello del suicidio? Per mesi e mesi avevo letto e studiato le centinaia di lettere scritte al fratello, avevo visitato i musei con le sue opere, le avevo scrutate da vicino e confrontato i soggetti, analizzato i colori, le pennellate e le tele e la loro preparazione. L'anniversario del giorno della sua morte avevo iniziato a dipingere fedelmente una copia dell’ultimo quadro Campo di grano con corvi. Immaginavo di ripetere ogni suo gesto con la medesima ispirazione e insania con cui aveva concepito l'originale. Che effetto avrebbe avuto su di me? Alcuni giorni dopo ero stato assalito da una forte depressione, seguita da una perdita di peso tale da dovermi sottoporre alle cure di uno specialista. Sindrome di Stendhal, avevano detto alla clinica. Mia moglie a stento aveva impedito che mi suicidassi, volevo buttarmi nella Senna: l’edera di Vincent e la piena del fiume mi avevano rapito. Da due settimane l’alluvione sferzava Parigi. Diluviava e sotto i ponti si incagliavano tronchi e rifiuti e si ammucchiavano le vacche annegate, gonfie come otri e ogni giorno io ero a cavalcioni dei parapetti a guardare le acque nere del fiume e a farle scivolare nell’anima. La consapevolezza, la crisi di identità in cui ero piombato mi avevano rovinato, intere giornate al cavalletto, attratto da un’irresistibile forza verso i colori e le forme di quel quadro. Accadeva che mi ritrovassi in piena notte davanti alla tela, con tavolozza e pennelli e gli occhi sbarrati, pronto a continuare infaticabile nella mia opera. A un prezzo altissimo c’ero riuscito, e lenta e crudele l’anima dell’artista mi era entrata dentro. Nascosta tra le trame della tela mi possedeva e mi suggeriva l’esatto tocco di pennello e la densità dei colori e il delirio dell’ispirazione veniva iniettato. Il suo giallo di cromo e il blu di Prussia mi avevano soggiogato. Con uno sforzo sovrumano avevo completato la copia del quadro. Era identica, perfetta. Deposta in cantina, è laggiù da più di quarant’anni, muta e incorniciata.