Aurangzeb was the sixth and last of the great Mughal emperors
Le civiltà d'Oriente - Storia dell'India - 11
di Mauro Lanzi
4.4.3 Aurangzeb (1658-1707)
Aurangzeb è forse l’unico dei Moghul che non sia ricordato con il titolo che si era scelto, Alamgir, “Conquistatore del mondo”, forse non a caso. Fu il più ortodosso ed il più spietato dei sovrani Moghul, esaltato dalla tradizione sunnita, disprezzato ed odiato dalla maggioranza dei suoi sudditi; regnò per un periodo lunghissimo, quasi cinquant’anni, e fu anche un reggitore energico ed efficace, tutelò validamente l’integrità dello stato, anzi ne raddoppiò l’estensione. Lasciò però dietro di sé, una scia di rancori e risentimenti che alla fine minarono alla radice l’impero moghul: chiuso nel suo cieco fanatismo islamico, Aurangzeb non comprese quello che i suoi predecessori, da Babur ad Akbar avevano ben visto, cioè che un impero eterogeneo e composito come quello indiano si poteva reggere solo sulla pacifica coesistenza tra la minoranza islamica e la maggioranza indù.
Come prima cosa, per rimediare al disastro finanziario lasciato dal padre, oltre ad imporre uno stile di vita austero, è giusto ricordarlo, a corte, reintrodusse la jiza, l’odiato testatico che gravava sugli indù; aumentò anche di tre volte le tasse sui mercanti indù. Non basta; sospinto dalla predicazione di un ottuso fanatico, l’ulema Ahmed, Aurangzeb cercò di imporre la legge islamica in tutto il paese. Furono proibite le festività indù, distrutti centinaia di templi, introdotti in tutte le province i “censori della pubblica moralità”, incaricati di controllare e reprimere ogni tipo di gioco d’azzardo, ogni attività sessuale illecita, fu messo in piedi, in buona sostanza, sotto la guida dello stesso Ahmed, una sorta di “strumento imperiale”, quasi un’Inquisizione Islamica, espressione dell’intransigenza integralista. 250 anni più tardi, nel 1947, la sistematica intolleranza religiosa inaugurata da Aurangzeb dovevano produrre i suoi frutti avvelenati, portando l’India ad una sanguinosa guerra di religione ed alla secessione del Pakistan.
I primi effetti negativi non attesero però tanto, si manifestarono quasi subito, i primi a ribellarsi furono i sikh. Il sikkhismo, come detto in precedenza, era nato come una fede non violenta, orientata alla preghiera, al lavoro ed alla condivisione dei beni; i rapporti con gli imperatori moghul avevano avuto alti e bassi, ma quando il nono ”guru” dei sikh fu arrestato dalle guardie di Aurangzeb e messo a morte per aver rifiutato di convertirsi all’islam, il figlio Gobind Sai, decimo ed ultimo guru, assunto il soprannome di “Singh” (leone) giurò di vendicarlo e dedicò la sua vita e quella di tutti i suoi seguaci a combattere il potere moghul. Da questo momento i sikh divennero un gruppo di feroci combattenti che si riconoscevano l’un l’altro da alcuni tratti identitari, che li contraddistinguono anche oggi; la barba lunga, i capelli non tagliati raccolti sotto il turbante, il pugnale alla cintola, i calzoni lunghi al ginocchio; molti di loro, in onore al loro guru, adottarono il nome Singh; ancora oggi è il cognome più ripetuto sugli elenchi telefonici di alcune città. Numericamente i sikh non potevano confrontarsi con le armate moghul, ma le loro tecniche di guerriglia furono una costante spina nel fianco del potere centrale.
Molto più significativa e pericolosa fu la fiera opposizione che era nata nel Maharastra già ai tempi di Shah Jahan, ma che esplose con il suo successore; sotto la guida di Sivaji Bonsle, considerato dai suoi il fondatore della nazione Maharatta, cominciò a nascere un’identità nazionale: i Maharatti erano degli arii di fede indù, seguaci di Siva, il nome Sivaji richiama appunto questa divinità. Sivaji divenne un mito per le audaci azioni di guerriglia o le rapine portate a termine ai danni, a volte dei sultanati sciiti del Deccan, a volte del potere moghul, alleandosi abilmente ora agli uni ora all’altro; alla fine riuscì a conquistare diverse piazzeforti e a costituire un nucleo omogeneo di una nazione di cui nel 1670 si proclamò re. Morto lui nel 1680, il figlio Shambuji ereditò uno stato maharatto perfettamente organizzato, pur non rinunciando a razzie e rapine ai danni del moghul. Nel 1684 Aurangzeb decise che ne aveva abbastanza ed organizzò una grandiosa campagna militare verso il sud del paese; i Moghul avevano da sempre sostenuto di essere gli imperatori di tutta l’India, ma di fatto questo dominio non si era mai realizzato. Nel sud sussistevano e prosperavano sultanati e staterelli indipendenti, che di tanto in tanto si dichiaravano sottomessi all’impero, poi, passato il pericolo, ignoravano tutti gli impegni presi e tornavano del tutto autonomi: Aurangzeb cambiò radicalmente la situazione, vaste aree da Golconda al Deccan furono occupate, le fortezze espugnate, i sovrani costretti alla resa o alla fuga (1689); questo stesso anno il Moghul ebbe anche un autentico colpo di fortuna, quando una pattuglia riuscì per caso a catturare il re maharatto Shambuji: l’imperatore lo fece torturare ferocemente fino alla morte, senza piegarlo, e la nazione maharatta ne uscì rinsaldata ( tutti ne ricordiamo la fama bellicosa dei maharatti nei romanzi Salgari).
Con Aurangzeb lo stato Moghul raggiunge la sua massima estensione, da Kabul in Afghanistan al Deccan, a riprova dell’energia e delle capacità anche militari di questo imperatore che aveva quasi raddoppiato il territorio ereditato: l’altra faccia della medaglia però erano le tensioni interne, l’indomabile guerriglia che devastava ampie zone del paese, il sordo rancore covato dalla maggioranza indù, il collasso finanziario generato dalle ultime campagne militari, il caos in cui era precipitato il centro stesso e l’apparato amministrativo dell’impero. Aurangzeb se ne rendeva conto e si tormentava: scriveva ad un figlio “Non so a quale pena verrò condannato…..la mia vita è già un assaggio dell’inferno” Ma la colpa era solo sua, per tutta la vita aveva allontanato da sé, per diffidenza e sfiducia, persone rette e capaci, si affidava solo a spie e sicofanti; anche i figli aveva allontanato, addirittura imprigionati per anni, sulla base di semplici sospetti. Non preparò ne designò un erede, morì da solo (1707).
Nel suo testamento aveva scritto: “Temo fortemente di aver affogato nel sangue la potenza del nostro casato. Tutti i miei desideri sono finiti nel nulla.”
Confessione lucida, ma tardiva.
Con Aurangzeb l’impero Moghul era giunto al culmine della sua estensione e del suo potere, ma portava, come visto, i germi della sua dissoluzione: il crollo fu repentino ed irreversibile e non fu neppure dovuto, come nel caso dell’impero romano, a fattori esterni (le invasioni barbariche), ma solo ad un inarrestabile processo di disgregazione interna: in pochi decenni un ricco e potente impero si dissolse, malgrado una cultura raffinata, capacità tecniche di artigiani e costruttori ancora eccellenti, un’economia migliore, in alcuni settori, di quella europea (il contadino indiano aveva ancora un reddito pari o superiore al suo equivalente europeo), una tradizione militare ancora vitale.
4.5.1 Gli ultimi Moghul
La morte di Aurangzeb fu seguita, come prassi, da una aspra contesa tra i tre fratelli (un quarto era morto in carcere). Prevalse il maggiore Muazzam che da Kabul, dove il padre lo aveva destinato, radunato un forte esercito, marciò su Lahore quando Aurangzeb era ancora agonizzante e poi su Dehli, anticipando la reazione dei fratelli, che furono costretti a cedere dopo una breve lotta. Muazzam poté quindi farsi incoronare con il nome di Bahadur (“il forte”, a destra); aveva 64 anni, un’età tarda per quei tempi; nonostante ciò, si mise all’opera con energia ed avvedutezza, cercò di rimediare al collasso amministrativo, susseguente alla lunga assenza da Dehli del padre, richiamando all’ordine i funzionari di tutti i gradi, concluse un accordo con i maharatti riconoscendo il loro dominio sulla costa occidentale, tentò di riavvicinare gli indù allo stato, anche con l’abolizione del testatico.
Avesse avuto più tempo, questo inizio avrebbe potuto essere una valida base per una ripresa, ma l’anziano imperatore era esausto; ritiratosi a Lahore, il suo ultimo atto, fu far giurare fedeltà al figlio maggiore da parte dei suoi fratelli; morì dopo solo cinque anni di regno, nel 1712. Come prevedibile, la guerra fratricida si scatenò subito violenta: prevalse il maggiore, Giandahar, un incapace, dissoluto ed oppiomane, che, per colmo di misura, aveva preso in moglie una ballerina (o prostituta?) indiana, attirandosi addosso il disprezzo di tutti; fu assassinato dai suoi stessi cortigiani dopo soli 11mesi di regno. Il potere cadde allora nelle mani di due ambiziosi cortigiani, i fratelli Sayyid, che per quasi otto anni fecero e disfecero tutto al centro del potere, insediando ed assassinando un imperatore dopo l’altro; alla fine un figlio diciassettenne di Bahadur, Muhammad, riuscì ad eliminarli, mandandoli a morte (1720). Muhammad (a destra), salito al trono, dimostrò anche buone doti politiche, ma la situazione era ormai irrimediabilmente compromessa, l’apparato amministrativo non funzionava più, la corte era divisa tra la fazione musulmana e quella indù, ogni decisione era bloccata da questa contesa; alla fine, il capo della prima, Nazim Asaf, si dimise da primo ministro, dopo essersi assegnato il governatorato del Deccan, che iniziò ad amministrare in forma assolutamente indipendente dal Moghul, imponendo una costituzione islamica (1728); così il potere centrale venne a perdere un terzo delle sue entrate ed una parte consistente delle forze militari.
Una condizione di debolezza desta appetiti e l’uomo forte aspettava la sua ora; nel 1736 la dinastia persiana dei Safavidi era stata rovesciata da un’invasione afgana; della circostanza approfittò un avventuriero, anche lui afgano o turcomanno, Nadir Shah, che liberatosi degli invasori, si insediò al potere circondato da una guardia di fidati compatrioti. Cominciò col togliere l’Iraq all’impero ottomano, poi invitò il Moghul a muovere contro la minaccia afgana; viste le esitazioni dell’altro, nel 1738 Nadir Shah ruppe gli indugi ed occupò da solo Kabul; la primavera successiva, valicato il passo Khiber e conquistata Lahore mosse verso Dehli, in cui entrò il 20 marzo dopo avere annientato il debole esercito indiano. Inizialmente, per pochi giorni regnò la calma, poi, presi a pretesto dei disordini scoppiati tra soldati e cittadini, Nadir Shah ordinò il saccheggio ed il massacro, che si arrestò dopo aver fatto 30000 morti: ritirandosi, i persiani portarono con sé 800 elefanti carichi d’oro, 2000 carichi d’argento, oltre al famoso Trono dei Pavoni, su cui saranno incoronati gli Shah di Persia (per l’ultimo, però, si trattò di una copia).
Muhammad ed il suo regno sopravvissero all’invasione persiana, ma l’impero era ormai l’ombra di se stesso; il regno Maharata si accresceva ad ogni occasione ed era ormai divenuto la maggiore potenza militare del subcontinente, i vari governatori regionali, detti nawab, letteralmente viceré, non rispondevano più al potere centrale, riscuotevano imposte per proprio conto senza inviare nulla all’imperatore, che ormai governava su una fascia di territorio intorno a Dehli; dopo la morte di Muhammad (1748) fu per il controllo di questa fascia che si accesero gli ultimi fuochi.