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DALLA POLTRONA (10) - Paolo Rumiz
Presentazione di libri, film, eventi.
di Giacomo D. Ghidelli
Verranno di notte - lo spettro della barbarie in Europa - Feltrinelli Editore
Sono anni che di tutti i libri che leggo – siano essi saggi oppure opere letterarie – faccio una scheda: una breve sinossi, uno stringato parere, e i brani che più mi hanno colpito, siano essi brevi frasi o pezzi moto più lunghi: una attività, questa, che è stata molto facilitata da quando leggo libri su strumenti elettronici, potendomi spedire per e-mail ciò che una volta segnavo a margine con matita e che ricopiavo poi diligentemente parola per parola.
Mentre stavo leggendo l’ultimo libro, mi sono accorto però che i brani che stavo selezionando erano in numero decisamente elevato: quasi uno per pagina. Il libro in questione è, come indicato a margine, “Verranno di notte – lo spettro della barbarie in Europa” di Paolo Rumiz. Un volume che mi piacerebbe fosse adottato come libro di testo in tutte le scuole superiori. E questo non perché gli studenti ne debbano assorbire acriticamente il contenuto, ma perché possano discutere le infinite questioni di attualità che lì sono affrontate partendo da dati e opinioni difficilmente rintracciabili nelle pagine dei quotidiani e tanto meno negli ormai inutili e stucchevoli talk-show televisivi, da sempre fatti soltanto per guadagnare audience agli inserti pubblicitari e strutturati a bella posta in interventi per lo più basati sulla protervia dei partecipanti.
Al centro della riflessione di Rumiz è quanto sta accadendo in Europa, dove forze di ultra-destra stanno portando avanti – in modo diffuso e quasi irrefrenabile – l’idea della prevalenza del concetto di nazione rispetto al concetto di unione. Ciò che sta emergendo all’orizzonte, afferma l’autore, è “una contraddizione in termini: un’Europa gestita da antieuropei. Un’accozzaglia di sovranismi destinata a implodere e affondare l’Unione”. Ed è questo un pericolo reale. Per capirlo, scrive, basta guardare alla storia. Basta pensare all’impero “dei miei nonni”, all’impero austro-ungarico, dove quella “congerie di popoli uniti dava proprio sui nervi alle nazioni”.
Oppure guardiamo alla dissoluzione jugoslava, un paradigma dal quale è impossibile prescindere. “Chi c’è stato sa che i Balcani sono la nostra pancia, il principio e la fine di tutto quello che accade in Europa”. E aggiunge: “Ciò che è accaduto in Bosnia (in particolare a Sarajevo) mi ha aiutato a capire cose essenziali del mondo. Per esempio, come la macchina irrazionale dell’odio venga costruita razionalmente da manipolatori al servizio di poteri innominabili, e come l’uomo manipolato possa ritornare alle caverne. Lì mi sono reso conto che le guerre possono scoppiare anche dove sembra impossibile, e che lo scontro tra nazioni porta sempre a una disfatta delle medesime e al trionfo del capitale straniero”.
Da qui parte una analisi accurata sulle ragioni che ci stanno portando su questa strada, di cui mi limito a segnalare soltanto quelli che potrebbero essere i titoli dei vari argomenti. C’è il tema della rete, “Una macchina che rimbecillisce, divide la società, cavalca il peggio di noi e uccide il ragionamento col virus di un pensiero bipolare manicheo, partorito da algoritmi cinesi o americani”; c’è il tema dell’uso dei media: “Impera la narrazione al negativo. I delitti sono in diminuzione, eppure si fa in modo che sembrino in aumento. E se il delitto è commesso da uno straniero, ha rilievo maggiore”; e c’è il tema del linguaggio: “Il male si insinua con le parole, ed è con la parola che lo si combatte. (…) Se in principio era il Verbo, significa che nulla è più forte della parola pronunciata”.
Ma non è soltanto per l’abilità di chi sostiene il concetto di nazione come principio dell’identità dei popoli che l’Europa corre rischi. Anzi. A un certo punto scrive: “Ho provato a chiedere a uno dei patrioti muscolari cosa vuol dire essere patriota. Mi ha risposto: essere contro l’islam, il Cremlino, l’America. Ho capito che, se gli togli il nemico, quei patrioti lì vanno in apnea. (…) Meglio non chiedere a quel tipo di patriota: Chi sei, da dove vieni, chi sono i tuoi antenati e qual è il destino della tua terra. Queste cose non le sa o le rimuove. Non sputerebbe mai in una provetta per il test del DNA per paura di trovarvi tracce di Africa o Asia”.
In ogni caso non è soltanto per il lavoro di questi “patrioti muscolari” che sta accadendo quello che si profila. Il reale problema è nell’inerzia di Bruxelles. Un’Europa amorfa che non sa fornire risposte, e con un centro politico che imita il linguaggio e la politica della destra sui temi dell’identità, della green economy, dell’immigrazione e dell’islam, per cui è ovvio che uno, dovendo scegliere, sceglie sempre l’originale e non la copia. Un’Europa che, per di più, in molti casi non sa fornire risposte diverse da quelle degli Stati Uniti: è infatti per servilismo – fa notare – che “abbiamo bandito Dostoevskij e mezza letteratura russa, lasciato che si abbattesse la statua di Puškin a Kiev e che si togliessero gli autori russi dalle antologie scolastiche ucraine”.
Che ci sia in giro per l’Europa un profondo malessere per gli infiniti problemi non risolti (emigrazioni, lavoro, welfare etc.) è indubbio. Ma, dice Rumiz, “non so cosa mi faccia più paura: le urla che amplificano il malessere dei popoli senza dar loro risposta, oppure la mancanza di ascolto rispetto a quel malessere diffuso. In entrambi i casi la gente è smarrita, ripiega sulla tribù, sulle bande di autodifesa”.
E come esempio della amorfa gestione europea ci offre un fulminante ritratto di Ursula von der Leyen, “la presidente americana”, come viene chiamata a Bruxelles, che “non favorisce il rilancio dell’Antitrust, congelato durante l’ultima pandemia; che si rifiuta di mostrare ai giudici della procura di Liegi le sue conversazioni via sms con la società farmaceutica Pfizer sulla scelta dei vaccini; che impara da Berlusconi a usare il potere in un certo modo e che infatti, quando Silvio muore, consente le bandiere a mezz’asta davanti al palazzo Berlaymont della Commissione europea”.
A riprova aggiunge il racconto del giorno in cui fu chiamato a intervenire a una commemorazione di David Sassoli, l’ex presidente del Parlamento europeo morto un anno prima. Lì Rumiz, alla presenza di Ursula, lancia una serie di provocazioni pesanti sia sull’atteggiamento dell’Europa rispetto alla guerra in Ucraina, sia sul fatto che l’Europa non poteva allargarsi a Est senza “chiedere ai nuovi entrati il rispetto dei diritti e delle minoranze, perché da quelle parti c’erano razzismo e antisemitismo”, sia sul fatto che bisognava “mettere più Europa nel nostro atlantismo”. In ogni caso, dice Rumiz, Ursula non fece nessun commento e non mutò mai la sua espressione di indifferenza. E aggiunge: “Quella bionda cotonata col tailleur, così democristiana nell’aspetto, mi parve più pericolosa dei destri più trinariciuti. Mi sfiorò il pensiero che avrebbe svenduto l’Europa dei padri fondatori, pur di aumentare il suo potere. E quando, quello stesso giorno, la vidi andarsene sorridente a braccetto con Giorgia Meloni, eletta da poco presidente del Consiglio, ne ebbi la conferma”.
Quello che in definitiva emerge, prosegue, è “un fascismo assai poco sociale e molto neoliberale, forte con i miti e mitissimo con i forti. Un fascismo che non deve disturbare le imprese, nel senso di non tassarle troppo. Un fascismo nuovo, senza ideologia ma affamato di potere. Un fascismo con al vertice non più lo Stato, ma il Grande Predatore, che deve fottere l’Altro nunc et semper, perché la vita è guerra permanente”. Ma poi ci ripensa. E afferma: “In realtà la parola fascismo, sulla quale ho ragionato finora, non è corretta, depista, è persino nobilitante per definire quello che ci circonda. Fa credere alla riemersione di qualcosa di vecchio, mentre qui siamo di fronte a un fenomeno totalmente nuovo ed estraneo a ogni ideologia: la cancellazione della memoria, dell’ascolto e del senso stesso del discorso”.
Siamo di fronte all’avanzata dei nuovi barbari. Che però può essere ostacolata, ci dice nel finale del libro. È “troppo facile fare professione di patriottismo europeo quando le cose vanno bene. Il coraggio della testimonianza si vede quando lo scenario è buio. È la lezione dei Benedettini, che rimisero in piedi il Continente nel momento in cui all’Europa non credeva più nessuno”. È il lavoro di una opposizione che sa dare risposte ai problemi; che si sa opporre, come è successo in Polonia, a un potere che nutre soltanto se stesso per cercare di percorrere altre strade. È il lavoro che deriva dal coraggio, da quel “coraggio autentico che non nasce dalla tracotanza ma dallo sconforto. Che nasce dalla lucida percezione del pericolo e dall’ammissione della propria fragilità”.