Aggiornato al 27/04/2024

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Voltaire

“The Shah’s exile and Khomeini’s return” - Iranian poster

 

Storia della Persia - 12

(seguito)

di Mauro Lanzi

 

I Pahlavi

 


Rovine di Persepoli – Il grande passato

 

Malgrado la pesante tutela esercitata sul Paese da russi ed inglesi, i primi anni del XX secolo sono caratterizzati in Persia da violenti disordini di natura politica, che alla fine costringono lo Shah a concedere la Costituzione ed a consentire l’insediamento di un parlamento, il Majilis; queste riforme ebbero di fatto vita breve, perché quando il Majilis cercò di legiferare anche sul nord del paese, i russi occuparono Teheran e sciolsero il Parlamento. Gli inglesi non potevano accettare il fatto compiuto, per cui si giunse, come sopra menzionato, ad un accordo spartitorio tra russi ed inglesi; i russi si ritirarono da Teheran ma mantennero il controllo sul nord del paese e sull’esercito, avendo creato una divisione cosacca, che era l’elite delle forze armate persiane: agli inglesi restavano la finanza e le attività estrattive. L’equilibrio così instaurato si ruppe nel 1917, quando la rivoluzione bolscevica convinse gli ufficiali cosacchi, tutti leali allo zar, a rientrare in Russia. In questo modo si trovò catapultato al comando della divisione “cosacca” l’ufficiale non russo più alto in grado, un persiano di nome Reza Khan; Reza era un giovane di umili origini, la sua famiglia allevava bestiame, si era arruolato per sfuggire alla fame. Nei ranghi della divisione aveva fatto rapidamente carriera per il suo coraggio e le qualità di comando dimostrate, che gli valsero la considerazione ed il rispetto dei suoi superiori, come dei suoi subordinati, che quindi lo seguirono nelle sue imprese.

Nel 1919 gli inglesi, approfittando della scomparsa dei russi, tentarono di trasformare la Persia in un protettorato britannico, mossa che causò una violenta insurrezione; approfittando di questa situazione, Reza marciò con i suoi uomini su Teheran ed impose allo shah di nominarlo prima comandante dell’esercito e poi primo ministro. Ormai il potere era nelle sue mani, l’ultimo shah della dinastia Quajar abdicò e fuggì in Europa; il 12 dicembre 1925, il Majilis, convertito in assemblea costituente, votò l’incoronazione di Reza Khan a nuovo shah di Persia; aveva 47 anni e si sentiva investito della missione di salvare il suo paese, con lui la Persia entra nell’età moderna.

Reza Khan era affascinato dalla civiltà occidentale, l’ex-pastore non aveva avuto un’educazione nella cultura tradizionale e neppure un’educazione religiosa; non si accostò mai al patrimonio di pensiero dei filosofi persiani, l’Islam gli apparve sempre come una religione retrograda. L’obiettivo principale che Reza si pone fin dall’inizio del suo regno è la modernizzazione del paese a tappe forzate; il suo ispiratore ed il suo modello era Mustafà Kemal, detto in seguito Ataturk, il geniale statista che proprio in quel periodo stava cambiando radicalmente i lineamenti della Turchia. Sul suo esempio Reza inizia un vasto programma di opere pubbliche, non prima di aver licenziato gli ingombranti consiglieri russi ed inglesi, sostituendoli con tecnici di altre nazioni, principalmente tedeschi: la Persia si copre di nuove strade e nuove ferrovie, le città si estendono e la loro popolazione aumenta, nascono ovunque nuove fabbriche, il paese conosce una fase di tumultuoso sviluppo. Nel 1928, sull’esempio di quanto fatto da Ataturk quattro anni prima, viene promulgata una costituzione di modello francese, che sanciva in particolare una rigida separazione tra potere politico e potere religioso. Reza vuole cambiare in profondità anche gli usi e le tradizioni del suo paese, non si procedeva mai abbastanza in fretta, a suo avviso, nella trasformazione della vecchia immagine della Persia; diede l’esempio lui stesso rifiutando turbante, caffetano e pantaloni a sbuffo, per indossare abiti occidentali: gli impiegati pubblici si videro obbligati da un giorno all’altro ad andare al lavoro in giacca e cravatta, moda che fu presto imitata dai ceti più abbienti fino ai più poveri. Anche sulla condizione della donna intervenne lo Shah; fu abolito l’obbligo del tschador, alle donne fu perfino concesso di iscriversi all’università.

Reza però. a differenza di Ataturk, non ebbe il coraggio di accettare tutte le implicazioni della modernizzazione del paese e della sua società; l’emancipazione femminile si fermò agli abiti, la donna restava soggetta al marito, che era il solo che poteva divorziare; fu favorita l’industrializzazione, ma agli operai fu proibito di scioperare o di aderire a sindacati. Non fu attuata alcuna riforma agraria a vantaggio dei piccoli proprietari, anzi lo Shah divenne il maggior possidente del paese, grazie a ripetuti espropri, condotti senza alcun rispetto delle leggi vigenti; centinaia di migliaia di contadini vennero privati di ogni proprietà e di ogni diritto, ridotti a schiavi. Del Parlamento, istituito nel 1907, veniva tollerata l’esistenza, ma non gli si consentiva di legiferare, poteva solo avallare le decisioni dello Shah: non si previde il passaggio ad un sistema pluralistico, come Ataturk che aveva programmato il superamento del sistema a partito unico e, quindi, l’avvento della democrazia.

Reza si sentiva la reincarnazione dei grandi sovrani persiani, da Ciro, a Cosroe, a Shapur, quindi un autocrate illuminato, fautore della grandezza del paese; per Reza l’invasione degli arabi aveva determinato il declino della Persia, bisognava ritornare alla civiltà degli arii, la tradizione ariana doveva essere ripresa e sviluppata. Nel 1935 il nome della nazione venne modificato in Iran, cioè terra degli arii, lo Shah stesso modificò il suo nome in Reza Pahlevi, utilizzando, come patronimico per sé e per la sua dinastia il nome della lingua parlata al tempo dei sassanidi, il pahlevi.

Evidentemente in questa opera di modernizzazione, Reza non poteva non scontrarsi con il clero; nel 1927 lo Shah aveva messo a punto con l’assistenza di giuristi francesi la riforma dell’ordinamento giudiziario, che prevedeva, tra l’altro, una netta separazione tra potere politico e gerarchie religiose; la novità fu giudicata inaccettabile dal clero che chiamò il paese allo sciopero generale. Anziché cercare una mediazione, Reza marciò su Ghom, la città santa, con la sua guardia motorizzata ed irruppe in moschea con gli stivali ai piedi, un ayatollah che fece delle rimostranze fu colpito con un bastone dallo Shah; si sanciva così una rottura insanabile tra la dinastia e le gerarchie del clero.

Non furono però i contrasti interni a mettere a repentaglio il potere dello Shah; Reza Pahlevi, fin dalla sua ascesa al trono, aveva allontanato i troppo ingombranti consiglieri britannici, sostituendoli principalmente con consiglieri tedeschi; non nascondeva, inoltre lo Shah le sue simpatie per la Germania nazista; fu quando, però, cominciò ad esprimere ambizioni di controllo sull’estrazione del petrolio, che gli inglesi si mossero, non potevano tollerare che venissero messi in forse i loro ricchi profitti. Prendendo come pretesto le simpatie hitleriane del sovrano, inglesi e russi nel 1941 invasero il paese costringendo lo Shah ad abdicare in favore del figlio, di soli 22 anni. Mohammad Reza Pahlevi regnerà per 38 anni e per il primo decennio fu un docile strumento nelle mani di inglesi e americani.

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La svolta si ebbe nel 1953, quando un settantenne politico, fino allora sconosciuto, Mohammed Mossadegh, si mise a capo del movimento nazionalista che stava agitando le piazze al grido “il petrolio ci appartiene”, ed ottenne l’appoggio di tutte le forze politiche di opposizione, compreso il clero. Lo Shah, pressato dalle folle, non poté che chiamarlo al governo, nella posizione di primo ministro; assunto l’incarico, Mossadegh come primo atto pubblicò la lista dei funzionari e dei politici corrotti dalle compagnie petrolifere e ne pretese le dimissioni; poi annunziò un programma di nazionalizzazione dell’industria petrolifera. Lo Shah, sentendosi in pericolo fuggì all’estero, ma ritornò ben presto in patria sulle ali di un colpo di stato militare orchestrato dalla CIA, Mossadegh fu arrestato e condannato a morte (poi graziato, non conveniva a nessuno creare dei martiri); lo Shah venne salvato per tutelare anche in futuro gli interessi delle compagnie petrolifere.

Gli americani commisero un errore che avrebbero pagato molto caro; Mossadegh non era affatto un comunista filosovietico, come fu fatto credere, era un laico, un nazionalista, un personaggio carismatico preoccupato solo del benessere del suo paese. Viceversa, Reza Pahlevi, che, al rientro, aveva deciso di impegnarsi in prima persona nel governo della nazione, non riuscì mai ad entrare in sintonia col suo popolo; si comportò come il padre, da autocrate, il parlamento esisteva solo per sancire le sue decisioni; come il padre, pose in cima al suo programma la modernizzazione a tappe forzate del paese, agevolato in questo dalla nazionalizzazione dei  giacimenti petroliferi, che non poté essere revocata e quindi generò un cospicuo aumento  delle entrate statali. Si costruirono fabbriche, strade, ferrovie, le città si riempirono di grattacieli, i giovani privilegiati venivano inviati a studiare all’estero a spese dello stato, soprattutto si rafforzarono l’esercito e la polizia segreta, il famigerato SAVAK. Un simile programma non poteva che aumentare gli squilibri sociali; oltre alla borghesia benestante, che evidentemente aveva accresciuto i suoi profitti, si era creata una piccola classe operaia, relativamente agiata, ma le città si erano riempite di contadini impoveriti, in fuga dalle campagne, in cerca di un lavoro precario qualsiasi, gli insegnanti ed in genere tutti gli impiegati statali si agitavano per ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro; scoppiarono un po' ovunque proteste e disordini.

Lo Shah, infine, si rese conto dei pericoli insiti in questa situazione; i consiglieri americani spingevano soprattutto per aiuti all’agricoltura per frenare la fuga dalle campagne, ma il sovrano voleva di più, voleva una rivoluzione sociale per allineare l’Iran alle nazioni più moderne. La ”Rivoluzione Bianca”, come fu chiamata, prevedeva l’eliminazione della servitù della gleba, l’esproprio dei terreni incolti, di proprietà sia dei laici che del clero, l’assegnazione di appezzamenti di terra ai contadini incapienti, l’estensione del diritto di voto ai non islamici ed alle donne, la partecipazione degli operai ai profitti delle fabbriche, la lotta all’analfabetismo. Era un programma di tutto rispetto che però si attirò fin dall’inizio l’ostilità del clero, espropriato dai suoi latifondi ed ostile all’estensione dei diritti alle donne ed ai non islamici.

La guida del movimento contrario alle riforme fu assunta da un ayatollah fino allora poco conosciuto, ma dotato di una grande oratoria, capace di soggiogare le folle di fanatici: il suo nome era Rudollah, ma diventerà famoso col nome della sua città di origine, Khomeini: la sua predicazione era diretta principalmente contro il voto alle donne ed ai non islamici, anche se l’esproprio dei latifondi del clero era il motivo fondamentale del malcontento. Lo Shah non si preoccupò più di tanto, contava molto sul risultato del referendum popolare, indetto per il 26 gennaio 1963, che in effetti approvò con largo margine il programma di riforme. L’illusione durò poco: il 24 giugno dello stesso anno, nella giornata dell’Ashura, sacra agli sciiti, i fedeli eccitati dalla predicazione dei mullah, i diseredati, le folle disperate che si accalcavano ai sobborghi delle città si rivoltarono, mettendo a ferro e fuoco la stessa capitale; lo Shah fu costretto a far intervenire la polizia che prese a sparare sulla folla; nessuno ha mai saputo il numero delle vittime, certo molte centinaia o migliaia.

Khomeini fu prima arrestato ed incarcerato, poi espulso dal paese. Se le riforme promosse da Reza Pahlevi avessero prodotto gli effetti che ci si auspicava, la crisi sarebbe stata  superata, ma proprio la riforma agraria, il punto centrale della Rivoluzione Bianca fallì clamorosamente; i contadini assegnatari delle terre espropriate furono lasciati soli, senza risorse per avviare un’attività, senza aiuti per irrigare le loro terre, costretti ad indebitarsi ricaddero sotto il giogo dei latifondisti o furono costretti ad emigrare in città, dove finivano ammassati in misere baraccopoli; Teheran in pochi anni passò da due a sei milioni di abitanti, mentre le campagne si svuotavano. La Persia, che per secoli era stata autosufficiente da un punto di vista alimentare, si vide costretta ad importare più della metà del suo fabbisogno: l’incremento delle entrate petrolifere susseguente alla guerra dei sei giorni nel 1973 consentiva di fronteggiare anche questa situazione, lo Shah vedeva nell’industrializzazione accelerata del paese la via di uscita alle difficoltà esistenti; purtroppo molte delle industrie create con generosi incentivi pubblici erano iniziative posticce, che fallirono nel giro di pochi anni, creando un’altra classe di disperati, gli operai lasciati sul lastrico.

Le masse di diseredati, nelle campagne come nelle città, erano terreno fertile per la predicazione del clero, che sosteneva che le difficoltà esistenti derivavano dall’aver abbandonato il dettato coranico. Khomeini dall’esilio, prima in Irak, poi in Francia, proseguiva con la sua predicazione; agli inizi degli anni settanta veniva pubblicato un suo libro, noto in occidente col titolo di “Governo Islamico”; in questo scritto, Khomeini va oltre le sue tesi originali, che tolleravano un governo laico, purché fedele alle leggi islamiche: un sovrano ingiusto avrebbe dovuto essere sostituito da un sultano giusto, che si considerasse il luogotenente dell’Imam nascosto. Ora, come detto, va oltre, condanna i compromessi accettati dal clero sciita nei secoli precedenti, esige il ritorno ai tempi di Maometto (o dei Califfi), in cui potere politico e potere religioso erano riuniti in un’unica istanza, ovviamente religiosa; quindi lo stato come teocrazia.

Le tesi utopiche di Khomeini venivano diffuse in Iran da testi fotocopiati o da nastri incisi e distribuiti clandestinamente; è sorprendente che l’ayatollah di Ghom riuscisse a svolgere upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/4/...questa frenetica attività dalla Francia, il sospetto di una copertura da parte dei servizi segreti francesi è più che lecito. Ma sorprendente è anche la diffusione delle sue idee non solo tra i diseredati, ma anche tra la borghesia urbana, commercianti, funzionari pubblici, giovani tecnici che avevano studiato in occidente; il numero dei delusi, se non addirittura spaventati dalle conseguenze della civiltà occidentale esportata in oriente, aumentava ogni giorno. Tutti costoro, che nutrivano un profondo malcontento nei confronti di un regime sempre più inefficiente e corrotto, erano indotti ad accettare il dettato di Khomeini, secondo cui il progresso materiale importato dall’occidente andava a discapito del progresso morale, che il sistema occidentale non possedeva più le virtù morali necessarie a risolvere i problemi sociali e eliminare la miseria umana. Incredibile che questi personaggi si illudessero anche di poter continuare con il loro stile vita, con blue jeans, magliette, abiti alla moda, auto e motorini, feste o ritrovi, dopo l’affermarsi del khomeinismo che loro auspicavano.

Lo Shah, chiuso nel suo palazzo, circondato da adulatori e sicofanti, ottenebrato, anche, secondo alcuni, dalle droghe di cui faceva uso, non si rendeva conto della marea che montava; il popolo per lui era un semplice oggetto da sottoporre alle sue mire di grandezza, la gente doveva lasciarsi plasmare docilmente per raggiungere gli obiettivi di progresso che lui si prefiggeva; non si accorgeva che il cosiddetto progresso voluto dal suo governo aveva arricchito solo latifondisti, industriali, speculatori, alti funzionari statali, mentre enormi moltitudini gemevano in condizioni uguali o peggiori di prima. Il suo modo di comunicare con il suo paese consisteva in monumenti autocelebrativi della sua persona o della dinastia, il più famoso dei quali è la torre Azadi (Torre della libertà, originariamente torre del Re), inaugurata in occasione del 2500° anniversario della fondazione dell’impero Achemenide, ad opera di Ciro il Grande, di cui Reza Pahlevi si considerava il continuatore.

Lo Shah ed il suo governo si preoccupavano degli oppositori politici, del pericolo rosso, non presero mai sul serio i rischi derivanti dall’ostilità del clero: l’episodio che più di ogni altro dimostra  l’insensibilità del sovrano verso i sentimenti religiosi della popolazione, fu l’introduzione, votata dal Parlamento, su pressioni del governo, del “calendario monarchico” che faceva risalire l’inizio del computo degli anni alla investitura imperiale di Ciro il Grande, anziché all’Egira (622 dc), come in uso in tutti gli stati islamici.

Difficile immaginare iniziativa più inutile e sconsiderata; anche i moderati e gli indifferenti si allontanarono dal regime, per un gesto che venne percepito come un oltraggio ad Allah. Ben presto scoppiarono disordini: le proteste religiose si univano alle proteste contro la povertà, la disoccupazione, la riforma agraria fallita, creando una miscela esplosiva, che né lo Shah, né la sua polizia seppero valutare correttamente. Già nel gennaio 1978 imponenti manifestazioni di folla dovettero essere arginate con l’impiego dell’esercito e dei mezzi blindati, che provocarono migliaia di vittime; l’esplosione si ebbe l’11 dicembre 1978, giorno dell’Ashura, sacro per gli sciiti; in quella giornate le folle raccolte in preghiera in tutte le moschee udirono da nastri incisi, contrabbandati nel paese, la voce possente di Khomeini che incitava il popolo alla guerra santa contro il sovrano infedele, che veniva paragonato al Califfo Yesid, il personaggio più esecrato nella tradizione sciita, il carnefice di Hussein ultimo figlio di Alì; ogni fedele morto martire in questa lotta sarebbe asceso al paradiso.

Lo Shah fece intervenire ancora l’esercito, ma neanche il fuoco delle mitragliatrici riusciva a fermare le migliaia di fanatici in rivolta, gente che affrontava la morte a cuor leggero perché non aveva più nulla da perdere e poteva solo sperare nel premio del martirio.

Il 16 gennaio 1979 Mohammed Reza Pahlevi, resosi conto che solo una guerra globale avrebbe potuto aver ragione della rivolta, abbandonò il suo paese; accomiatandosi dai suoi generali, disse loro: “non durerà molto”. Sperava si ripetesse quanto accaduto nel 1953; non tornerà mai più, morirà in esilio nel 1980.                

Il primo febbraio 1979 l’ayatollah Khomeini, all’età di 78 anni, rientrò a Teheran accolto da folle osannanti; il resto è cronaca contemporanea.            

Una rinascita della Persia, dopo le promesse dei sovrani Pahlevi e degli ayatollah che li sostituirono, non sembra ancora in vista; le forze dinamiche che in duemilacinquecento anni di storia hanno consentito a questa nazione di risorgere più volte dalle proprie ceneri sembrano estinte.

Forse solo le incertezze politiche di questo momento possono lasciare adito a qualche tenue speranza, speranza che con il tempo l’Iran possa tornare ad essere l’antica Persia, possa tornare ad essere il ponte prezioso tra oriente e occidente che spesso è stata.

 

Torre Azadi

 

Inserito il:18/08/2022 11:41:37
Ultimo aggiornamento:18/08/2022 12:07:20
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