Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Giulio Aristide Sartorio (Roma, 1860-1932) - Sacile 31 ottobre 1917, olio su tela

 

1915/18 La guerra dell'Italia (5) L’Italia in guerra. Dal ’15 al ‘17

di Mauro Lanzi

(seguito)

“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”

Giuseppe Ungaretti

 

“O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu

Voi chiamate il campo d'onore
questa terra di là dei confini
Qui si muore gridando assassini
maledetti sarete un dì”

Anonimo. Canzone di protesta dal fronte.

 

 

Una delle premesse al nostro intervento era stata la convinzione che, lentamente, gradatamente, la superiorità di uomini e mezzi che l’Intesa poteva dispiegare stesse prevalendo sugli avversari e che, quindi, l’intervento italiano potesse contribuire, in misura determinante, a far pendere le sorti della guerra a favore degli Alleati o comunque l’Italia potesse trar vantaggio di questa superiorità per realizzare i suoi obiettivi. Nel lungo termine questo è quanto più o meno avverrà, ma solo dopo un lungo, incerto, sanguinoso conflitto, mentre, inizialmente, proprio l’intervento italiano si dimostrerà largamente inefficace per la tragica impreparazione di tutto il suo apparato militare.

Al momento, in quei mesi drammatici del 1915, la mostruosa efficienza della macchina da guerra tedesca era ancora in grado di fare la differenza.

Ai Dardanelli, il tentativo di sbarco alleato era stato prima arginato e poi respinto, con l’aiuto tedesco, da un brillante ufficiale turco che farà molto parlare di sé nel dopoguerra, Mustafà Kemal (la Turchia ha appena celebrato il centenario del successo turco sugli ANZAC, i corpi australiani e neo zelandesi). Sul fronte russo l’esercito zarista aveva appena subito la durissima sconfitta di Gorlice-Tarnow (2 Maggio), ad opera delle forze riunite austro-tedesche, perdendo definitivamente Varsavia e tutta la Polonia; il fronte serbo, che pure aveva riservato amare sorprese all’esercito imperiale all’inizio del conflitto, crollò di lì’ a poco, grazie all’entrata in guerra della Bulgaria ed all’intervento in Settembre di poche divisioni tedesche: i resti delle truppe serbe vennero raccolti dalle nostre navi a Valona e Durazzo (trassero in salvo oltre 300.000 persone, tra civili e militari, ma nessuno ci ha mai detto grazie!) mentre gli austroungarici occupavano Montenegro ed Albania; l’esercito italiano, quindi, si trovò ad affrontare, all’inizio del conflitto, un nemico numericamente inferiore, ma rinfrancato dai successi ottenuti, favorito dalla natura del terreno, più propizio alla difesa che all’attacco, tutt’altro che in difficoltà sotto il profilo strategico.

A tutto ciò si aggiungevano le drammatiche carenze della nostra organizzazione militare: non solo l’armamento era, come vedremo, assolutamente inadeguato, ma mancavano anche riserve di viveri, vestiario, munizioni, la rete ferroviaria era carente proprio dove necessaria, era praticamente inesistente anche la sanità, sembra che nessuno avesse pensato come far fronte all’afflusso di feriti dopo le prime sanguinose battaglie; mancavano quadri preparati, ufficiali e sottufficiali. Inoltre, lo sciagurato Salandra non aveva neppure pensato di inserire nel Trattato di Londra la richiesta d’apertura di linee di credito o di fornitura delle materie prime di cui l’Italia aveva un disperato bisogno

Ad alcune di queste deficienze si riuscì a porre rimedio con il tempo, più’ lacunosa e difficile da sanare era la condizione degli armamenti, anche perché mancava, alle spalle, una infrastruttura industriale adeguata.

L’arma individuale dei nostri soldati nella Grande Guerra era il fucile “modello ’91”, realizzato sulla base di un brevetto acquistato dal governo italiano da una ditta tedesca, la Maennlicher, al quale un ingegnere del genio, l’ing Carcano, aveva apportato delle migliorie: il nome corretto dell’arma è dunque Maennlicher- Carcano.

Era una buona arma, superiore persino al Mauser impiegato dagli Austriaci: non so se a voi noto, questo è il fucile che ha ucciso Kennedy.

Ma le note positive si arrestano qui: l’esercito italiano era carente propri nei due settori d’armamento che risulteranno decisivi in questa guerra, cioè mitragliatrici ed artiglieria.

La mitragliatrice è un’arma pensata addirittura da Leonardo da Vinci, ma la sua prima realizzazione pratica risale al 1884 ad opera di un ebreo americano, Hiram Maxim, che realizzati i suoi primi prototipi, offrì il brevetto all’esercito inglese, che lo rifiutò, perché non capì l’importanza di quest’arma e la superiorità di questo modello rispetto ad altri sul mercato. Furono invece i tedeschi a comprendere le potenzialità della mitragliatrice Maxim, che consentiva a pochi serventi di sviluppare la potenza di fuoco di un reggimento: una produzione massiccia fu iniziata nella fabbrica di Spandau e da allora tutte le armi automatiche tedesche portano questo nome.

L’esercito italiano impiegò in tutta la prima guerra mondiale, la mitragliatrice Fiat Revelli, un’arma raffreddata ad acqua con caricamento a caduta dall’alto, mentre la Spandau tedesca utilizzava il più semplice caricatore a nastro, che assicurava una più rapida cadenza di tiro. Non era questo però il problema maggiore, quanto invece il numero di pezzi in dotazione: all’inizio della guerra il nostro esercito disponeva appena di 200 mitragliatrici pesanti per coprire un fronte di 700 km.

Si pensi che i tedeschi entrarono in guerra con 12000 mitragliatrici: alla fine ne utilizzavano più di 100.000 tra pesanti e leggere.

Analoga era la situazione dell’artiglieria: il nostro esercito disponeva di soli 250 pezzi per coprire un fronte di oltre 700 km, per di più obsoleti o in cattivo stato di funzionamento, alcuni unità, ai primi tiri, scoppiarono in faccia ai serventi. Mancavano anche le idee circa le tipologie di bocche da fuoco ed il loro impiego: assolutamente ignorata era l’artiglieria campale, nella quale eccellevano i francesi, con il loro obice a tiro rapido da 75 mm.

Ma soprattutto mancava l’artiglieria pesante, i grossi mortai ed obici da 350/400 mm, adatti a scardinare le posizioni difensive più attrezzate: mancava il personale esperto, addestrato al puntamento ed all’uso di questi armamenti. Queste carenze accompagnarono, malgrado gli innegabili progressi, il nostro esercito fino alla fine della guerra, ma fu proprio all’inizio che esse furono determinanti causando il sanguinoso fallimento delle prime offensive, quando il fattore sorpresa avrebbe dovuto favorirci.

Il comando dell’esercito era affidato al generale Luigi Cadorna, figlio di quel Raffaele Cadorna che aveva combattuto a Porta Pia, che era divenuto capo di Stato Maggiore nel luglio 1914, per la morte improvvisa del suo predecessore.

Di Cadorna è stato detto tutto il bene e tutto il male possibile, soprattutto il male, ma nel desolante scenario offerto dagli alti gradi militari italiani in tutte le guerre dopo l’Unità, Cadorna non appare il peggiore fra tutti.

Sicuramente non gli si possono addebitare le deficienze di armamento di cui si è trattato, né l’insufficienza dei quadri intermedi (ufficiali e sottufficiali): bisogna anche dargli atto delle difficoltà che dovette affrontare a seguito dell’inatteso repentino rovesciamento delle alleanze, le nostre divisioni erano schierate sul fronte francese, dei futuri campi di battaglia non esistevano neppure le mappe!

Posto di fronte ad un compito assai arduo, con i mezzi di cui disponeva, scelse l’unica strategia possibile, cioè controllare con esigue forze di elite (gli alpini) le zone montuose, riservando le poche zone pianeggianti (in tutto 200 km su 700 di fronte) ai movimenti delle grandi masse di fanteria.

Tutto ciò non può però giustificare i suoi errori, le sue carenze nella conduzione della guerra, la sua incapacità di motivare e guidare i suoi uomini: il Generalissimo, come si faceva chiamare, aveva un carattere assai rigido, poco incline a considerare il morale della truppa tra gli elementi determinanti della sua strategia, una dura disciplina era l’unica soluzione prevista. Era molto religioso, assisteva messa e si comunicava tutte le mattine, poi mandava al massacro o davanti ai plotoni di esecuzione i suoi uomini senza battere ciglio.

Sentite come pensava di incitare le sue truppe:

“Nessuno deve ignorare che in faccia al nemico una sola via è aperta, la via dell’onore che porta alla vittoria o alla morte. Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere sarà raggiunto dal piombo delle linee retrostanti, o da quello dei carabinieri, quando non si stato freddato prima dal suo ufficiale. Anche per chi, arresosi vigliaccamente, riuscisse a cadere vivo nelle mani del nemico, seguirà immediatamente il processo in contumacia e la pena di morte a guerra finita.”

Non erano parole al vento: pensate che nel biennio di comando di Cadorna, l’esercito italiano contò con un numero di fucilazioni inferiore solo a quello dell’esercito russo, che aveva un numero di effettivi ben superiore al nostro!! Parliamo di 330000 processi per crimini militari, di cui il 60% concluso da condanne, con più di 4000 condanne a morte, non tutte eseguite, per fortuna. Da obbrobrio, poi, la pratica della decimazione, messa in atto all’ammutinamento di alcuni reparti. Nessuno si era preoccupato di pensare al benessere o al morale delle truppe o alla possibilità di utilizzare i moderni metodi di convinzione, propaganda e indottrinamento, che erano invece ampiamente usati negli altri eserciti.

Sotto un profilo strategico, Cadorna mancava totalmente di duttilità e fantasia: esisteva solo l’attacco frontale (le famose “spallate”), spesso non supportato adeguatamente da artiglieria ed armi automatiche, senza trarre alcun insegnamento dall’esperienza dei mesi di guerra già trascorsi sugli altri fronti. Addirittura, ai primi assalti, le nostre truppe non disponevano neanche delle cesoie necessarie a tagliare i reticolati; poi furono loro fornite cesoie adatte al giardinaggio; da noi, il tragico si accompagna spesso al grottesco!!!

Non dobbiamo quindi meravigliarci troppo se le operazioni militari persero quasi subito ogni slancio: pensate che, dal ’15 al ’17, si sono contate ben 12 battaglie dell’Isonzo; occorre ricordare che il confine prima della guerra correva a poca distanza dal fiume, Udine e Pordenone erano già italiane e Trieste non distava che 30 km dal confine, chilometri che non furono mai percorsi. In due anni di duri combattimenti e pesanti sacrifici, l’esercito italiano che pure godeva di una larga superiorità numerica, non era riuscito ad imporsi in forma determinante lungo un centinaio di km di confine!

Sentite cosa scriveva il generale Krauss, capo di stato maggiore della 5a armata austriaca (l'armata dell'Isonzo):

“Dal 18 ottobre al 3 novembre durarono gli attacchi [italiani] impetuosi contro entrambi i pilastri della testa di ponte, il Sabotino e il Podgora. Sempre nuovi reparti d'assalto procedevano sui campi di cadaveri dei predecessori, giungevano quasi ogni giorno nelle prime linee della testa di ponte ed erano respinti in contrattacco, sempre solo dopo combattimenti di ore, per far posto ai nuovi assalitori. E quando, dopo una pausa di pochi giorni cominciò la quarta battaglia, gli Italiani mossero di nuovo impetuosamente contro il Podgora. Gli impetuosi assalti durarono ininterrottamente dal 9 novembre, e 1'11 raggiunsero la maggiore violenza. Sempre nuovi reparti attaccavano, se i precedenti retrocedevano distrutti, procedevano sul campo di cadaveri fin nelle trincee, dove erano annientati dal nostro fuoco”.

Difficile sottrarsi all’orrore e all’angoscia ispirata da queste parole; certo si moriva in modo insensato anche sugli altri fronti, ma la fredda ricostruzione di un nemico documenta, in modo inconfutabile, il valore disperato dei nostri soldati ma anche i sacrifici inumani imposti loro; tristemente questi sacrifici erano destinati comunque a risultare vani, per le asperità del terreno, ma soprattutto anche per la mancanza di mezzi adeguati di supporto: dov’era, ad esempio, l’artiglieria??

Questa situazione di stallo fu interrotta nei 1916 da due episodi, conseguenti entrambi all’iniziativa del nemico: il primo è la cosiddetta “Strafexpedition” (spedizione punitiva) voluta dal Capo di Stato maggiore austriaco Konrad per punire l’Italia del suo supposto tradimento. Per raggiungere i suoi obiettivi, Konrad aveva chiesto l’aiuto dell’alleato tedesco, che gli fu rifiutato: la Germania non era ancora in guerra con l’Italia ed il suo esercito era pesantemente impegnato nell’assedio di Verdun. Così Konrad fu costretto a distogliere truppe sia dal fronte dell’Isonzo che dal fronte russo, concentrando 14 divisioni, 150 pezzi di artiglieria pesante, 500 pezzi di medio calibro in un settore poco presidiato, il Trentino. L’attacco improvviso partì il 15 maggio, cogliendo, come sempre, di sorpresa i nostri alti comandi; gli Austriaci penetrarono nelle nostre linee per più di 20 km su un fronte di 35: giunsero fino in Valdastico alle soglie dell’Altipiano di Asiago, ma non riuscirono a raggiungere la pianura. Il 17Giugno erano già sulla difensiva, mentre Cadorna, che era riuscito a mobilitare riserve per 500.000 uomini lanciava una serie di controffensive, che fecero rapidamente perdere agli Austriaci più di una metà del territorio acquistato. Poteva essere un’altra Caporetto, ma qui, per nostra fortuna, mancavano i tedeschi.

L’evento aprì gli occhi alla politica, svelando illusioni e menzogne; cadde il ministero Salandra, sostituito da Boselli.

Ma Konrad aveva commesso un grave errore strategico; i russi infatti non tardarono a rilevare che le posizioni austriache erano rimaste largamente sguarnite: benché carenti come armamenti ed equipaggiamento, i russi nella primavera del 1916 schieravano 130 divisioni contro le 45 tedesche e 40 austriache. L’indebolimento dello schieramento austriaco favorì quindi il successo dell’offensiva lanciata il 4 giugno dal Generale Brusilov, forse il migliore stratega dell’esercito zarista; in soli tre giorni, dopo aver sfondato le linee austriache, i russi fecero più di 200.000 prigionieri avanzando per centinaia di km in territorio austriaco, puntando direttamente su Vienna.

Gli austriaci videro la morte negli occhi.

L’offensiva russa dovette infine arrestarsi, sia per le tragiche insufficienze logistiche dell’esercito russo, che non riusciva ad alimentare l’avanzata delle prime linee, cui mancavano rincalzi, viveri e persino munizioni, sia, soprattutto, per il massiccio intervento dei tedeschi: Falkenhayn fu però obbligato a distogliere ben 15 divisioni dal fronte occidentale, in pratica ad arrestare l’offensiva su Verdun. Brusilov fu respinto sulle posizioni di partenza, subendo anche durissime perdite.

Konrad dovette dimettersi e, d’ora in poi, l’effettiva conduzione delle operazioni passò all’OHL (Oberste Heeres Leitung, comando supremo) tedesco.

Il fallimento del piano di Konrad ebbe altre due conseguenze: l’entrata in guerra della Romania (27 Agosto), a fianco dell’Intesa, e la conquista di Gorizia. Cadorna, infatti, pensò bene di sfruttare l’indebolimento austriaco, scatenando la sesta battaglia dell’Isonzo che portò l’esercito italiano al primo, significativo successo della guerra, l’entrata in Gorizia, 9 Agosto 1916. La battaglia per Gorizia, da sola, costò al nostro esercito 50.000 morti ed un numero quasi doppio di feriti e dispersi.

 

“Gorizia tu sei maledetta….”

 

(continua)

Inserito il:06/10/2017 23:06:03
Ultimo aggiornamento:18/10/2017 15:18:40
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