Sarabjit Singh (Bhikhlwind, India, 1963 – Lahore, Pakistan, 2013) – The burning Punjab-1947
Le civiltà d'Oriente - Storia dell'India - 15
di Mauro Lanzi
Verso l’indipendenza
Il Congresso, nel frattempo era non solo riuscito a sopravvivere, malgrado contrasti e scissioni, ma aveva migliorato la sua rappresentatività attraverso meccanismi elettivi aperti a vaste fasce della popolazione; il salto di qualità si verificò con l’ingresso di Gandhi, che ne divenne da subito il capo indiscusso, malgrado la presenza di altri capi di prestigio, uno per tutti Motilal Nehru. Nel giro di due decenni, dal 1920 al ’39, Gandhi fu capace di trasformare un club moderato ed esclusivo in un partito nazionale di massa, per il quale riuscì ad ottenere anche l’appoggio della potente Islam League, sostenuta dai generosi finanziamenti dei ricchi musulmani, tra cui l’Aga Khan , capo dei Nazariti, setta sciita tuttora esistente; Gandhi definiva l’alleanza indù-musulmani, “l’alito della nostra vita”, ma l’adesione della componente musulmana fu legata sempre e solo alla figura di Gandhi, il conflitto religioso latente era inestinguibile.
Dal podio del Congresso Gandhi proclamava la non cooperazione globale per inceppare gli ingranaggi del potere britannico, che doveva colpire non solo i prodotti britannici di importazione, ma tutte le istituzioni inglesi, scuole, università, tribunali, enti amministrativi, fino a titoli ed onorificenze; il grande poeta indiano Robindranath Tagore, premio Nobel per la letteratura nel 1913, rifiutò il titolo di baronetto, concessogli dopo il Nobel.
Nel dicembre 1920 quattordicimila delegati all’assemblea annuale del Congresso votarono entusiasticamente il programma gandhiano, spazzando ogni tentativo dell’ala moderata; in quella occasione Gandhi varò lo statuto del Congresso, il cui primo articolo proclamava “Il raggiungimento dello svaraj con ogni mezzo pacifico”; Gandhi definiva lo svaraj, né più, né meno, “ la possibilità per l’India di esistere autonomamente”, ma anche “la cessazione della paura”: Gandhi riorganizzò il Congresso dandogli una struttura rappresentativa articolata in sezioni provinciali presenti in tutta la nazione; così il Congresso acquisì autorità, compattezza e rappresentatività. Nel 1921 si insediò un nuovo viceré, Lord Reading, al quale Gandhi rivolse subito un appello per la scarcerazione di tutti i non cooperanti che languivano a migliaia nelle prigioni indiane; l’appello fu respinto, lo stesso Gandhi fu imprigionato “per aver promosso la disaffezione verso i legittimo governo”: fu scarcerato dopo due anni per un intervento di appendicite.
Il periodo di carcerazione di Gandhi favorì l’emergere di altre personalità nel Congresso, prima fra tutte quella di Jawaharlal Nehru( più noto come Pandit), figlio di Motilal; è difficile immaginare due personalità più differenti di Gandhi e Nehru, il primo nato da famiglia modesta, votato da sempre alla povertà, si presentava come un guru, un padre spirituale alle masse indiane ( il suo altro appellativo era Bapu, padre), il secondo, di famiglia ricchissima, vissuto sempre negli agi, educato ad Harrow e Cambridge, era la personificazione dell’India più evoluta e acculturata; nonostante ciò, i due furono capaci di collaborare in assoluta armonia, Gandhi rappresentando la guida spirituale del movimento, Nehru quella politica. Su raccomandazione dello stesso Ghandi, Nehru fu eletto presidente del Congresso ed in tale posizione lanciò nel dicembre 1929 il programma detto di purna svaraj, indipendenza completa, che andava oltre la pura e semplice autodeterminazione predicata da Gandhi, “Indipendenza significa per noi libertà completa dal dominio britannico”; il 26 gennaio 1930 venne dichiarato giorno dell’indipendenza e come tale festeggiato in tutta l’India con l’esposizione del tricolore indiano.
Gandhi, da parte sua, non restava inerte e scelse l’imposta sul sale come pretesto per una nuova mobilitazione di massa; il monopolio del sale era stato istituito agli inizi del XIX secolo dalla John Company ed era stato costantemente confermato ed inasprito dal governo imperiale, al punto che anche chi osava raccogliere ed usare per sé sale marino era passibile di arresto; era una delle tasse più odiate perché pesava sui più indigenti. Il 12 marzo 1930 Gandhi proclamò una satyagraha (protesta non violenta); con una marcia di 380 km verso il mare un piccolo uomo di 61 anni calvo e seminudo attirò su di sé e sui suoi seguaci l’attenzione di tutto il mondo: giunto al mare raccolse un grumo naturale di sale, invitando tutti gli indiani a fare altrettanto, in violazione alla legge. Gli arresti furono rapidi e numerosi, finirono in galera migliaia di contadini, più gli stessi Nehru e Gandhi, la tassa non venne abolita, ma gli arrestati furono infine rilasciati anche per consentire al governo inglese di indire la prima “round table” sullo stato dell’India, malgrado la decisa opposizione parlamentare all’iniziativa, capeggiata da Winston Churchill. La “round table” del 1930 fu il primo dei numerosi tentativi condotti dagli inglesi per cercare una soluzione alla questione indiana associando in misura sempre più ampia gli indiani all’amministrazione del Paese; oscillando tra la repressione più dura, a misure sempre più ampie di autogoverno, che giunsero alla fine del decennio alla concessione dell’autonomia amministrativa delle province, gli inglesi tentarono di tutto per districare il garbuglio indiano senza perdere del tutto il paese.
Purtroppo per loro, si scontravano con due difficoltà; la prima, le ricorrenti crisi economiche, che data l’arretratezza del paese, colpivano le fasce più deboli della popolazione ed erano uno dei motivi delle agitazioni sindacali, delle insurrezioni contadine e di tanti moti che scuotevano l’India in quel periodo. L’altra, forse molto più importante era la mancanza di un interlocutore; secondo Gandhi e Nehru era il Congresso l’ente delegato a rappresentare tutta l’India, ma questa visione non coincideva affatto con le idee della minoranza musulmana, rappresentata dalla All Indian Muslim League, capeggiata dall’Aga Khan e da Mohammad Alì Jinnah, un avvocato di Bombay, nato a Karachi, che avrà un ruolo determinante nel futuro del Paese. Jinnah aveva iniziato la sua carriera politica nel Congresso, come seguace di Gandhi, ma ne era uscito nel’28, quando un comitato presieduto dai Nehru aveva licenziato un progetto di costituzione per un “Commonwealth indiano” che non conteneva sufficienti garanzie, secondo Jinnah, per la minoranza musulmana. Jinnah era fondamentalmente un moderato che venne gradualmente sospinto su posizioni estremiste dalla spinta proveniente dal basso della Lega, ma anche dai ripetuti fallimenti dei gruppi misti creati per cercare una soluzione congiunta. Alla fine, nel 1940 l’assemblea della Lega musulmana a Lahore, su proposta dello stesso Jinnah, licenziò una delibera che propugnava la creazione di una nazione separata per i musulmani; argomentava Jinnah che indù e musulmani non sarebbero mai potuti coesistere in unica nazione, perché diversi per religione, costumi sociali, abitudini alimentari, assenza assoluta di matrimoni misti; sosteneva che i settanta milioni di musulmani costituivano una etnia di gran lunga più omogenea di qualsiasi popolazione indiana, anzi erano l’unico popolo che si poteva fregiare del titolo di nazione, per omogeneità di lingua, di costumi e di religione. Girava anche un pamphlet che proponeva una “patria” islamica in India, che includesse fondamentalmente le province occidentali del Sind, del Beluchistan, del Punjab; per questa patria si proponeva il nome di Pakistan, in urdu “Terra dei puri”. Gandhi si oppose con tutte le sue forze a questa risoluzione di cui intravedeva le drammatiche conseguenze ed anche l’infondatezza sotto il profilo etnico, visto che molti musulmani erano degli indù convertiti.
Nel 1939/40 ci fu lo scoppio della seconda guerra mondiale e la Gran Bretagna non ebbe più modo di interessarsi seriamente al problema dell’indipendenza indiana; il viceré si limitò a comunicare che l’India era in guerra con la Germania. Nehru e Gandhi, benché intimamente contrari all’ideologia nazista, si ribellarono a questa decisione unilaterale, sostenendo che l’India sarebbe entrata in guerra solo dopo l’indipendenza e su basi di parità. A sostegno di questa tesi, il Congresso ritirò tutti i ministri dalle amministrazioni provinciali e Gandhi lanciò tre successive campagne di disobbedienza civile contro la partecipazione alla guerra (finendo anche in prigione). Malgrado gli inevitabili disordini e l’altrettanto inevitabile repressione, la società indiana rimase fredda e fondamentalmente sostenne lo sforzo bellico inglese, anche per motivi economici; la crescente richiesta di forniture per sostenere l’impegno militare, favorì non solo l’agricoltura, ma anche l’industria che si sviluppò anche settori nuovi, dalla chimica, alla farmaceutica, agli autoveicoli. Molto più abile si dimostrò Jinnah, che riuscì a guadagnare l’appoggio o quanto meno la comprensione britannica per le tesi della Lega, evitando ogni atteggiamento apertamente avverso alla guerra.
Il nuovo viceré Generale Archibald Wavell, comandante in capo delle forze inglesi in estremo oriente, entrato in carica nel giugno ’43, rinnovò i tentativi per giungere ad un accordo tra le parti, che offrisse almeno agli inglesi una via di uscita dignitosa dall’India, altro ormai non chiedevano. Wavell proponeva un governo fatto solo da indiani, l’unico inglese rimasto sarebbe stato lui stesso, pro tempore. Per discuterne usò le sue buone relazioni con Jinna, fece scarcerare Gandhi, ma l’incontro fra i due si concluse con un nulla di fatto, perché Gandhi si rifiutava persino di sentir parlare di Pakistan, prima dell’indipendenza.
Terminata la guerra, in un ultimo disperato tentativo di promuovere un passaggio di poteri non conflittivo, una commissione inglese appositamente costituita giunse in India nel maggio 1946 portando con sé un progetto di Repubblica Federale per la futura India, con vaste autonomie locali e limitatissimi poteri per il governo centrale. Circa i poteri di questa autorità centrale si innescò subito lo scontro, perché ai musulmani non bastava la “quasi parità” offerta; Jinnah, la cui salute andava rapidamente declinando, aveva ancora un anno di vita, si sentì tradito sia dal Congresso che dal generale Wavell e fece proclamare dalla Lega musulmana il “giorno dell’azione diretta” per il 16 Agosto 1946.
La giornata rimase scritta nel sangue; solo nel primo giorno a Calcutta ci furono più di 20mila morti, nell’indifferenza della polizia bloccata dagli ordini del Governatore provinciale (musulmano). Da Calcutta i disordini si estesero a tutta l’India in un crescendo di sfrenata ferocia; dove prevalevano i musulmani, le vittime erano indù, dove prevalevano gli indù le cataste di corpi erano di musulmani; iniziava la guerra civile.
Wavell in un estremo tentativo di evitare il peggio incaricò Nehru di formare un governo che includesse gli islamici ed usò tutto il suo ascendente su Jinnah per convincerlo a nominare rappresentanti della Lega per diversi ministeri; Jinnah si piegò, ma i neo ministri si insediarono con il solo scopo di boicottare l’azione di governo, cosa molto agevole, dato che il ministero delle finanze era toccato ad un musulmano. Con un governo condannato all’inazione, le violenze proseguivano: Gandhi batteva il paese per convincere gli indù alla moderazione, giunse fino al punto di recitare il Corano in un tempio induista, senza riuscire a frenare la violenza; veniva chiamato dagli estremisti indù “ Muhammad Gandhi”. Questo suo ultimo generoso slancio gli costerà la vita.
Nel febbraio 1947 il governo laburista di Clement Attlee, (che aveva sostituito Winston Churchill dopo la fine della guerra) dichiarò che “il governo di Sua Maestà aveva deciso il passaggio dei suoi poteri in India non oltre il giugno’48”: di seguito inviò in India come ultimo viceré un personaggio di grande spicco, eroe di guerra, membro della famiglia reale (nipote della regina Vittoria, zio materno di Filippo di Edimburgo), Lord Mountbatten.
Gli inglesi non ne potevano più, volevano solo andarsene e speravano nel carisma di Mountbatten per limitare i danni. Mountbatten si impegnò molto per trovare una soluzione equa e pacifica, anche la moglie Edwina si prodigò a modo suo (divenne l’amante di Nehru), ma non si riuscì a piegare l’intransigenza di Jinnah, che giunto al crepuscolo della sua esistenza, voleva soltanto vedere realizzato il suo sogno. Così, sotto la pressione delle violenze in atto, gli eventi presero un’accelerazione improvvisa: all’inizio di aprile Mountbatten si rassegnò all’idea che la formazione di un Pakistan era ineluttabile, il 20 Aprile Nehru si dovette adeguare, il 15 Luglio la Camera dei Comuni deliberò la costituzione di due Dominion nell’ex Impero. Jinnah alla fine si rassegnò alla partizione di Punjab e Bengala ed una commissione di cartografi inglesi si mise all’opera per definire i confini. Il 7 Agosto Jinnah prese l’aereo per Karachi simboleggiando con questo gesto la separazione del Pakistan che sarebbe divenuta effettiva la settimana dopo. Il 15 Agosto 1947 l’India divenne indipendente, il tricolore indiano sventolava sul Forte Rosso di Nuova Dehli. Nehru avvertì:
“Il passato è ancora con noi”.
L’alba del domani
Con la partizione eseguita da cartografi inglesi, su mappe per di più imprecise, in totale il 17, 5% del territorio andò al Pakistan, l’82,5% all’India, ma le conseguenze si rivelarono un dramma superiore ad ogni immaginazione: si dovettero ripartire strutture comuni da secoli, ferrovie, fisco, polizia, esercito, materiali e scorte, fino alle risme di carta ed alle matite, tutto quanto l’Impero aveva costruito rischiava di andare distrutto. Ma ancora peggiori furono le conseguenze per le popolazioni; è difficile immaginare l’angoscia ed il terrore di milioni di indù, sikh e musulmani che dovettero confrontarsi da un giorno all’altro con la prospettiva di trovarsi intrappolati in una nazione ostile alla loro fede e furono quindi costretti ad abbandonare le loro case ed i loro campi, portando con sé quello che potevano portare. In Punjab era stata prevista una forza di interposizione, che rimase inerte nelle caserme, mentre i profughi sikh diretti ad est venivano massacrati dai musulmani ed i profughi musulmani diretti ad ovest erano trucidati da sikh ed indù. La piena separazione divenne un’ordalia, un olocausto di saccheggi, stupri, assassini; si calcola che oltre dieci milioni di persone furono costrette ad emigrare, oltre un milione furono i morti: La responsabilità di questo dramma ricadono solo in parte sui politici che provocarono, per miopia politica, imprevidenza, interessi personali, la secessione; il retaggio di intolleranza religiosa era troppo profondo e radicato perché si potesse superare indenni il passaggio; giova anche ricordare, che mentre non risultano presenze significative di indù in Pakistan, sopravvivono in India robuste minoranze islamiche.
Una cosa con cui i politici di entrambe le parti dovettero confrontarsi da subito fu la difficilissima situazione economica; l’indipendenza non poteva certo aver risolto di colpo gli annosi problemi dell’economia, anzi, se possibile, li aveva aggravati. La strada per condizioni di vita migliori è stata lunga ed impervia e non si può certo dire conclusa; un ruolo non secondario lo ha giocato l’incremento demografico, basti pensare che la popolazione indiana, 350 milioni di abitanti all’indipendenza, è giunta oggi a un miliardo e trecento o quattrocento milioni!!
Difficile, infine, dare un giudizio sul periodo di dominio inglese: sicuramente riprovevoli furono i metodi con cui i britannici si inserirono nel contesto indiano, gli strattagemmi con cui esautorarono progressivamente i potentati locali fino ad eliminarli; sicuramente inaccettabile fu la brutalità impiegata nelle repressioni, dalla rivolta dei sepoys fino ai moti indipendentisti; censurabile anche la gestione degli ultimi mesi prima della partizione.
All’attivo del periodo coloniale vanno però ascritti altri aspetti di assoluto rilievo: gli inglesi crearono e lasciarono all’India tutte le infrastrutture del paese, ferrovie, strade, scuole, poste, sistema telegrafico, oltre a tutto l’apparato burocratico ed amministrativo, fisco, giustizia, polizia. Ma il lascito più importante e significativo è un altro, l’identità nazionale; l’India in tutta la sua storia millenaria non era mai stata, non si era mai sentita una nazione; non solo nessun occupante, neppure i Moghul era mai riuscito a controllare tutto il subcontinente, ma, anche entro i limiti dei successivi potentati, la lealtà dei sudditi andava al sultano o al nawab locale, il concetto di patria era assolutamente sconosciuto, anche a livello culturale.
L’idea di nazione cominciò a svilupparsi, come visto, dal confronto e dall’emulazione con i dominatori, a cui gli indiani devono il recupero delle proprie radici, ma anche il sistema politico, il modello di patria che sono a loro ispirati. Ed anche la lingua; l’inglese è la seconda lingua ufficiale di uso generale, insieme all’indi: decreti, leggi, contratti vengono redatti in entrambe le lingue.
Un ultimo cenno; il 30 gennaio 1948 un intellettuale estremista indù assassinò, con un colpo di rivoltella, il Mahatma Gandhi. Sull’onda emotiva di questo evento, il governo fu in grado di reprimere tutti gli eccessi degli induisti; l’assassino fu impiccato, le organizzazioni cui faceva riferimento cancellate. Con il suo martirio, Gandhi portò il suo paese vicino all’ideale di convivenza pacifica tra musulmani ed indù, più di quanto non gli fosse riuscito in vita. L’annuncio di Nehru
“La luce è uscita dalle nostre vite, vi è oscurità dappertutto”