Crocifissione - Russia Scuola di Palech - inizio XIX sec.- cm 65,2 x 43,5
“L’Antropologia cristiana e l’Arte” - 1
di Giovanni Boschetti
La teologia non rientra nei concetti astratti, come la filosofia; il suo oggetto è l’insieme di fatti concreti, i dati della rivelazione, eventi che trascendono i mezzi dell’espressione umana.
L’iconografia si trova nella medesima situazione, di fronte agli stessi fatti. Poiché la rivelazione cristiana trascende sia le parole che le immagini, nessuna espressione verbale o pittorica può, come tale, esprimere Dio, offrire di Lui una conoscenza adeguata, immediata. In questo senso l’una e l’altra sono sempre ‘in scacco’, perché devono trasmettere l’inintelligibile mediante l’intelligibile, il non-rappresentabile mediante il rappresentabile; devono esprimere nel Creato ciò che lo supera, ciò che è di un’altra natura. Ma la loro grandezza consiste proprio nel fatto che la teologia e l’Icona giungono ai vertici delle possibilità umane e si rivelano inadeguate. Dio stesso non si rivela forse mediante la Croce, ‘scacco’ supremo? È proprio attraverso questo ‘fallimento’ che la teologia e l’Icona sono chiamate a testimoniare Dio, a rendere percepibile la presenza Divina, quella presenza che nella sua realtà diviene accessibile nell’esperienza della santità.
In quest’ambito, nella teologia e nell’arte sacra, si registrano due eresie di segno opposto. La prima eresia è l’umanizzazione (immanentizzazione), l’abbassamento della trascendenza Divina al livello della nostra comprensione umana.
L’epoca del Rinascimento può fungere da esempio per l’arte; per la teologia, un esempio può essere il razionalismo che riduce le verità divine a livello della filosofia umana. Sono una teologia e un’arte che non «falliscono» mai. Qui troviamo un’arte bella, ma che circoscrive l’umanità di Cristo e non mostra in alcun modo il Dio-Uomo.
L’altra eresia è la capitolazione incondizionata dinanzi allo ‘scacco’, la negazione di qualsiasi possibilità di espressione, che nell’arte si manifesta come iconoclasmo, rifiuto dell’immanenza della Divinità, ossia della stessa incarnazione; nella teologia diventa fideismo. La prima eresia produce un’arte empia e un pensiero empio, nella seconda eresia l’empietà è dissimulata sotto il velo di una apparente pietà.
Queste due posizioni, opposte nelle loro manifestazioni, hanno come punto di partenza gli stessi presupposti antropologici.
Nella prospettiva patristica orientale, la comunione con la vita divina è ciò che permette all’uomo di essere tale, non solo nel compimento finale, ma fin dal momento della sua creazione e in ogni istante della vita; al contrario, la teologia occidentale considera tradizionalmente, come dimostrato, che l’atto della creazione suppone che l’uomo non solo abbia una natura diversa da quella di Dio, ma che l’esistenza donatagli sia, in quanto tale, autonoma; la visione di Dio può essere il fine dell’esperienza individuale di qualche “mistico”, ma non è la condizione della vera umanità dell’uomo.
Ecco due concezioni radicalmente differenti del destino dell’uomo, della sua vita e della sua creazione; da una parte c’è l’antropologia ortodossa concepita come perfezionamento da parte dell’uomo della sua somiglianza con Dio, somiglianza manifestata esistenzialmente, in modo creativo e vivente, che determina di conseguenza il contenuto dell’immagine ortodossa. Dall’altra parte c’è l’antropologia delle confessioni occidentali che afferma l’autonomia dell’uomo rispetto a Dio: l’uomo è sì creato a immagine di Dio ma, essendo autonomo, non corrisponde al suo Prototipo. Di qui l’incremento dell’umanesimo con la sua antropologia indipendente dalla Chiesa e scristianizzata, in cui l’uomo si distingue dalle altre creature solo all’interno di categorie naturali, come ‘animale ragionevole’, ‘sociale’ ecc. L’errore tragico della modernità non è stato quello di rivalutare l'uomo, ma aver riabilitato l'uomo senza Dio e contro Dio.
Per quanto concerne la creazione artistica, già i Libri Carolini, in contraddizione col Settimo Concilio Ecumenico, la scindono dall’esperienza cattolica della Chiesa, la considerano come autonoma e in tal modo ne determinano il futuro sviluppo. A differenza del Concilio, per i teologi di Carlo Magno era assolutamente inconcepibile, e dunque inaccettabile, ravvisare nell’Icona una via di salvezza equivalente alla parola evangelica.
Se nel XII e in parte anche nel XIII secolo l’immagine occidentale manteneva un certo legame con l’antropologia cristiana, una lenta decadenza conduce l’arte a staccarsi progressivamente e definitivamente da essa. Proclamandosi autonoma, quest’arte si limita ad esprimere ciò che non supera le facoltà naturali dell’uomo.
Da quando non c’è più l’irruzione dell’increato nella creatura, la Grazia, in quanto effetto creato, non può far altro che migliorare le facoltà naturali umane. Quello che il cristianesimo aveva, sin dal principio, rigettato dalla sua arte – una rappresentazione illusoria del mondo visibile – diventa lo scopo da perseguire. Dal momento che l’irrappresentabile viene concepito con le stesse categorie del rappresentabile, il linguaggio del realismo simbolico scompare e la trascendenza Divina degradata al livello delle nozioni della vita corrente. Il messaggio cristiano è minimizzato, adattato al pensiero umano. Cedendo alla tentazione della ‘riuscita’ (il contrario del ‘fallimento’), nel periodo del Rinascimento l’imitazione della vita invade l’arte. Con l’infatuazione per l’antichità, al posto della trasfigurazione del corpo umano si insedia il culto della carne. La dottrina cristiana dei rapporti tra Dio e l’uomo si avvia in una direzione sbagliata e l’antropologia cristiana viene corrosa; viene soppressa la prospettiva escatologica della cooperazione dell’uomo con Dio. Nella misura in cui l’umano si insedia nell’arte, Dio se ne allontana, tutto si rimpicciolisce e si profana, ciò che era strumento di adorazione diventa oggetto di idolatria; ciò che era una rivelazione si accontenta d’essere un’illusione, il segno del sacro si cancella, l’opera d’arte non è più che un mezzo di godimento e di conforto; l’uomo incontra se stesso e adora se stesso nella propria arte. All’immagine della rivelazione si sostituisce ‘l’immagine di questo mondo che passa’. E la menzogna dell’imitazione della natura non consiste solo nel sostituire l’immagine tradizionale con una finzione, ma anche nel mantenere i soggetti religiosi sfumando i contorni che separano il visibile dall’invisibile; così la distinzione reciproca scompare, sino a negare l’esistenza stessa di un mondo spirituale. L’immagine perde il suo significato cristiano, il che si risolve in definitiva nel suo ripudio, in un iconoclasmo dichiarato. “Così viene giustificato l’iconoclasmo della Riforma. Giustificato e relativizzato: perché non riguarda la vera Arte Sacra, ma la sua degenerazione nell’Occidente medievale”.