Aggiornato al 21/11/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Cyril Rolando-AquaSixio (Francia, 1984) - The Pursuit of Happiness

 

La nostra felicità è “Eudaimonia”?

di Anna Maria Pacilli

 

Se ci chiediamo cosa sia per noi la felicità, inevitabilmente ci sembra un concetto astratto.

E per questo dobbiamo a tutti i costi cercare di “concretizzarlo”.

E, per farlo, ricorrere a dei fattori esterni che la possano suscitare.

I filosofi, anche, nel corso della storia si sono posti la domanda. E forse hanno trovato delle risposte per noi meno comprensibili, perchè meno concrete, ma non per questo per loro meno soddisfacenti. Anzi…
Per noi la felicità è, solitamente, legata ad un evento esterno: “Sono innamorato e sono felice”. “Domani parto per le vacanze e ciò mi rende felice”. “Rivedo, dopo anni, il mio amico d’infanzia e questo non può che rendermi felice”. “Aspetto un figlio e questo mi riempie di gioia”.

Soprattutto le donne gravide assumono quella facies particolarmente serafica che suscita invidia agli uomini perché, in qualche modo è come se un po’ fossero esclusi dalla loro gioia.
La felicità la ritroviamo nella possibilità che ci è data di ammirare un bel panorama, di accarezzare con gli occhi i colori della natura, di udire gli uccelli che si risvegliano assieme ai colori delle foglie e dei fiori, di giocare con i sapori consueti di un cibo che ci è familiare ma che ci sembra di rinnovata memoria.
Tutto questo sembra evocare scenari felici.
Ma una felicità così descritta è una felicità “condizionata”. Se vengono meno quei fattori che l’hanno suscitata, viene meno la felicità.

Ecco, è come se la felicità fosse un “motivo” e non uno “stato d’animo”.
I Greci chiamavano la felicità eudaimonìa, letteralmente la condizione di uno “spirito buono”(eu=bene, daimon=spirito), cioè di chi è posseduto da un buon demone, da una buona sorte che gli permette di prosperare: l’effetto è una tonalità dell’anima lieta, positiva e stabilmente piacevole.

Insomma, diremmo noi, essere nati sotto una buona stella.

Mentre troppe volte oggi noi ci ritroviamo a cercare affannosamente nel cielo di Agosto una stella cadente che ci regali un pò di gioia.

Per i Greci uno stato d’animo felice in sé e non correlato ad un evento in particolare che lo suscitasse.

Il buon “demone” vegliava stabilmente sull’uomo e sulla polis e questo produceva felicità.

Ogni filosofo forniva il suo metodo per raggiungerla: Aristotele per addizione, la felicità è la perfetta beatitudine della contemplazione teorica; gli epicurei e gli stoici per sottrazione, la felicità è ataraxìa, imperturbabilità, specie nei confronti dei beni materiali che, per definizione, sono effimeri e transitori; Diogene faceva coincidere la felicità con la libertà, Socrate con la virtù, gli scettici pensavano fosse illusoria, come tante altre cose.
Anche in epoca moderna sono molte le teorie sulla felicità, non molto differenti se non per il peso che la socialità ha nella sua realizzazione: non si può essere felici da soli e questo è un presupposto che tiene conto della naturale predisposizione degli umani alla vita sociale.

Dunque, si fa ricorso al principio dell’utilità e bisogna fare in modo che il maggior numero di individui sia felice.

La felicità non è egoisticamente un fatto che riguarda il singolo, ma è anche una questione collettiva, di cui ogni individuo è responsabile.

Tesi, questa, presente in qualche modo nella teoria marxista, che, però, non si occupa di che fine faccia la “minoranza” che rimane infelice e di quale sia il contenuto di questa felicità.
Ma anche il concetto di “bene” kantiano rimaneva vuoto e formale.
Tutti questi bei concetti teorici non possono però distoglierci dalla consapevolezza che a volte, in alcuni periodi della nostra vita possiamo essere sereni, anzi felici, seppure non viviamo un periodo particolarmente propizio, ed in altri momenti ci sembra di essere profondamente infelici, seppure tutto intorno a noi sembra brillare. Ecco come, penso ( e vedo nei miei pazienti), si possa sentire un depresso: non riesce a cogliere il bello laddove il bello c’è.

Una certa stabilità meno transeunte potrebbe esservi nella cultura, una felicità che potremmo dire intellettuale, meno caduca.

Quella di cui parlava Aristotele nell’Etica nicomachea e che deriva dalla contemplazione teorica, priva, però del calore dei sentimenti.
Aristotele scrive:“…se l’attività dell’intelletto essendo contemplativa, sembra eccellere per dignità e non mirare a nessun altro fine all’infuori di se stessa e ad avere un proprio piacere perfetto (che accresce l’attività) ed essere autosufficiente, agevole, ininterrotta per quanto è possibile all’uomo e sembra che in tale attività si trovino tutte le qualità che si attribuiscono all’uomo beato: allora questa sarà la felicità perfetta dell’uomo, se avrà la durata intera della vita” (EN, X, 7).
Allora, o felici ad “episodi”, per un amore, per una nascita, per una cosa bella che ci è capitata, ma questo dura sempre poco, o stabilmente beati, ma in maniera del tutto incolore.

Tertium non datur…

 

Inserito il:25/05/2017 19:38:35
Ultimo aggiornamento:25/05/2017 19:43:14
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