Adele Greenfield (Charlotte, NC, United States) – Nature Woman Dancing in Leaves
Portobello (1) - Il profumo del sidro
di Mara Antonaccio
La mia auto percorre monotona l’autostrada che inesorabilmente mi riporta a casa da queste lunghe vacanze, sto guidando tranquilla, mentre i pensieri vanno a pianificare date, orari, programmi.
La nulla facenza dei giorni passati ormai è un ricordo e mille impegni mi attendono in città. Mi dibatto tra la voglia di ritrovare il mio mondo e un represso desiderio di fuga, che alternativamente si affacciano alla mente, sgomitando l’un l’altro per catturare la mia attenzione. Tutto sommato mi piace tornare a casa e ricominciare con la vita di sempre. La mattina compiere i soliti gesti metodici, comprare il pane e il latte nello stesso negozio sotto casa, portare i bambini a scuola e poi andare al lavoro.
Certo, stare lontano dalla solita routine all’inizio delle vacanze è indispensabile per ritemprarmi, ma poi mi viene voglia di tornare e di ritrovare il mio posto accogliente, la casa che ho messo su con le cose che mi piacciono, i mobili, i piccoli oggetti che mi danno quelle gioie di cui è fatto il quotidiano. Riabituarmi è stato faticoso ma ormai ho ricominciato con i ritmi di sempre e vengo risucchiata dal vortice della vita frenetica; sento lo scorrere dei giorni che si accorciano e che avvicinandosi alla stagione fredda, assumono una luce dorata, magica, con quel venticello fresco che ti passa sul viso ma che è ancora ben lontano dai rigori invernali.
E’ pomeriggio, sono uscita dal lavoro un po’ in ritardo e camminando lungo il viale alberato che mi separa dal metrò, un alito di questo vento impertinente ha sollevato le foglie rosse degli aceri, che iniziano a cadere, depositandole mollemente sull’asfalto.
L’atmosfera è irreale, l’odore di umido e di erba bagnata colpisce il mio olfatto in modo prepotente ed è quasi una sensazione voluttuosa. Da una finestra socchiusa esce la musica di una vecchia canzone jazz, cantata con voce graffiante e malinconica, e io chiudo gli occhi, annuso l’aria con piacere quasi animale e riconosco gli aromi dell’autunno che arriva, fatto di nebbia, di foglie e di muschio.
Mi stringo protettiva nel mio maglione caldo e cammino ad occhi chiusi, quasi giocando con la brezza e lasciandomi spingere dalla sua mano gentile. Sono rapita dal profumo che l’aria porta con sé e non mi accorgo di nulla, tutto quello che è al di fuori non mi riguarda, i miei passi sono così leggeri che quasi ballano sul letto di foglie cadute.
Ma all’improvviso vengo riportata bruscamente alla realtà, sento un colpo forte sul viso, attutito da qualcosa di soffice e contemporaneamente avverto sulla pelle lo sfregamento di un tessuto ruvido. Solo dopo un primo momento di smarrimento, mi rendo conto di essere finita contro qualcuno. Negli occhi ho ancora la luce dorata di un pomeriggio di ottobre e il mio naso ora percepisce improvviso l’odore acre di dopobarba e di lana.
Subito non riesco a vedere bene, sono frastornata e non riesco a mettere a fuoco l’immagine, poi mi allontano un po’ e scorgo un uomo alto, dalle spalle larghe; indossa una giacca di panno e mi guarda sorridente.
Vengo colta da un momentaneo imbarazzo, mi sento scema, chissà da quanto tempo mi stava osservando, devo essergli sembrata una stupida così intenta a farmi spingere dal vento e a girare su me stessa, come trasportata in un valzer appassionato con un cavaliere invisibile.
Superato lo stupore iniziale comincio a vedere bene e ciò che ho davanti mi piace molto.
E’ un uomo alto, snello, ma piacevolmente muscoloso, l’ho avvertito dalla consistenza dell’urto, i suoi occhi azzurri mi guardano curiosi sotto due archi di sopracciglia fitte e scure e i capelli neri fanno da degna cornice al suo volto regolare.
Le labbra sono carnose e racchiuse dai baffi e da una barba appena accennati, devo essere proprio una buona osservatrice, non mi sono persa un particolare. D’istinto mi tocco i capelli per controllarne lo stato e mi compiaccio di aver indossato questi abiti, è un insieme che si adatta perfettamente ai miei fianchi abbondanti.
Ricambiato lo stupore iniziale e con tono divertito lui comincia a parlarmi in un italiano un po’ stentato, faccio attenzione al suo accento e credo di capire che arrivi da un paese di lingua inglese. Sempre sfoggiando un sorriso mozzafiato, inizia a raccontarmi qualcosa di sé, come per volersi scusare di essersi intromesso nel mio tête-à-tête col vento. Si chiama Jack, arriva da Londra e prende tutti i giorni il metrò perché lavora nella stessa zona dove lavoro io.
Lo sento parlare e mi piace la sua voce greve, del resto è adatta al suo corpo, più che un parlare sembra il suono di uno strumento a fiato, dalle note calde e dai toni bassi.
Senza staccare gli occhi da quello sguardo ipnotizzatore e con un sorriso idiota stampato sulla faccia, mi presento a mia volta e decidiamo di fare insieme il tratto di strada verso la fermata, per continuare a chiacchierare.
Si tocca spesso i capelli con un gesto elegante ma non affettato, passandoci dentro le mani dalle lunghe dita nervose, questo vezzo racconta della sua disinvoltura, della sua irrequietezza. E’ gradevole, spigliato, si comporta come un bambino curioso davanti ad un giocattolo nuovo e non smette un attimo di parlare.
E’ riuscito in un’impresa pressoché impossibile, mettermi a tacere, ma lo ascolto volentieri, anzi assumo un atteggiamento molto attento mentre vengo sommersa dal fiume di parole. Tra noi si instaura una immediata confidenza, come se ci conoscessimo già da tempo, è una sensazione gradevole per me che non permetto a nessuno di entrare nel mio mondo.
Racconta che fa il pubblicitario in una nota agenzia del centro e che adora il suo lavoro. Beh, il mio non è certo così creativo, inizialmente tergiverso ma poi Jack inizia a chiedermi di cosa mi occupo e alla fine cedo, confessandogli che lavoro in un ufficio di import-export, vicino al suo studio.
E’ così piacevole stare con lui che in un attimo siamo alla fermata e ci ritroviamo sul vagone del metrò. Continuiamo a parlare e a raccontarci cose, adora la cucina italiana, la nostra lingua, dice che cantiamo invece di parlare e anche il clima che c’è in ufficio gli piace molto: un po’ di confusione, creatività, qualche sana gelosia. I minuti scorrono velocissimi e quando arriva il momento per Jack di scendere, resto sul vagone accanto a molti altri estranei a pensare, un po’ frastornata da quell’incontro inaspettato.
Mi sento come chi è investito da un temporale tropicale e poi viene depositato sulla spiaggia molti metri più in là e si ritrova agitato, scombussolato.
Quando arrivo a casa continuo a pensare a questi momenti appena trascorsi e mi sento come la protagonista di un feuilleton fine secolo, incredula che tutto questo sia capitato proprio a me e non del tutto consapevole della stranezza dell’accaduto.
Quando la parte più razionale di me si riappropria della lucidità, mi rendo conto che non so niente di lui, né il suo cognome e neppure il suo telefono. Vengo assalita da un senso di angoscia e provo l’urgenza di sapere tutto di quest’uomo. Appena entro in casa i bambini mi corrono incontro contenti e iniziano a raccontarmi a mitraglia cosa hanno fatto a scuola, della gita all’Acquario e delle litigate fra loro. Vengo totalmente assorbita dalla loro presenza e mi dimentico per il momento di Jack, delle foglie rosse nel vento e della canzone di Billy Holiday.
Il resto della giornata trascorre impegnato da compiti, piscina e spesa al supermercato.
Finalmente i piccoli sono a letto e mi siedo sfinita sul divano; quando loro non ci sono o dormono, la casa si riempie di un silenzio innaturale. Già, perché oltre a me e a loro, in casa non c’è nessun altro. Luca se né andato due anni fa e ora vive, felice?, lontano da noi, con quella ragazzina tutta tette e cosce.
Pensando a lui ancora adesso mi si riempiono gli occhi di lacrime ma è solo rabbia, forse che io sono da buttare? Dopo questa brutta storia non ho più voluto saperne di uomini, mi fa ancora male. Certo, occasioni ne ho, sono intelligente, autonoma, piacevole e ho alcuni “spasimanti”. Il più assiduo è un collega che quotidianamente non perde occasione per essere gentile e premuroso. Ma Gianni, vuoi perché lavora con me da tempo immemorabile, vuoi perché è sempre così servizievole e condiscendente (e ha quel dannato vizio di togliersi i residui di cibo dai denti quando andiamo nel bar per il pranzo), proprio non mi piace.
E poi gli altri che sono passati come meteore nella mia vita, senza lasciare traccia, veloci parabole di pochi giorni. A volte mia madre o mia sorella ci provano a presentarmi qualcuno e le colleghe d’ufficio sembrano la succursale di “cuori solitari” ma finisce sempre come nelle commedie sentimentali americane, con appuntamenti al buio, serate imbarazzanti trascorse tra frasi di circostanza e discussioni noiose: mai nulla di fatto.
Sto pensando a queste “amenità” mentre vengo interrotta dal telefono che squilla, si insinua maleducato nelle mie intime riflessioni e mi fa sussultare, come se fossi stata colta in flagranza. Rispondo indispettita: è Luca, che mi chiede come va e come stanno i bambini, se glieli passo.
Ma quando imparerà che li metto a letto alle nove e che quindi ora dormono già da un po’? Mi sento stizzita dalla sua distrazione, è sempre il solito superficiale casinista, anche dei figli non si ricorda, non sa quasi niente di loro.
Cerco di dissimulare la rabbia che sta salendo, non devo sempre partire alla carica anche ora che siamo separati; in verità è un periodo che sta tentando di recuperare uno straccio di rapporto con i figli e ogni quindici giorni prende i bambini con sé, nel fine settimana. Non sono felicissima che stiano tutto quel tempo assieme a miss pin up, ma è giusto che passino qualche giorno col padre. Per me questi fine settimana vogliono dire un po’ di relax e un po’ di tempo per fare quello che mi piace: un giro per negozi, le maratone notturne di cinema e lettura, un viaggetto con le amiche.
Finalmente mi addormento, deve essere molto tardi, perché quando suona la sveglia sono ancora immersa in un sonno profondo.
(continua)