Aggiornato al 21/12/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Sandra Hansen (Holland, Michigan, USA) - Prayers to the Ganges river

 

Le civiltà d'Oriente - Storia dell'India - 5

(seguito)

di Mauro Lanzi

 

2.5 L’impero Gupta e l’età classica (320-700 d.c.)

 

Tempio visnuita di  Deorgawth

Ad un periodo di frammentazione succede, come spesso accade nella storia dei grandi paesi, una riunificazione del subcontinente nell’impero Gupta. Il rinnovamento imperiale parte, come per i Maurya, dal Magadha, cioè quella regione, di cui si è più volte parlato, favorita dalla prossimità al fiume Gange ed alle miniere di ferro dei monti Babacar. Il fondatore Candragupta I si fa incoronare a Pataliputra nel 320 d.c. assumendo il titolo di “gran re dei re”; grazie ad un’abile politica matrimoniale estende il suo dominio lungo il corso del Gange, assicurandosi il controllo di questa vitale via d’acqua. A partire da questo solido nucleo centrale, il figlio Samudragupta, regnante dal 335 al 375, estende il suo dominio a tutta l’India; di questo Napoleone dell’antica India si narra abbia combattuto più di cento battaglie, sradicando nove regni nell’India settentrionale e sottomettendone altri undici a sud: il culmine del potere dei Gupta è poi raggiunto dal figlio Candragupta II (375-415) che sottomette definitivamente i Saka, discendenti degli invasori Sciti; della città di Ujjain, strappata al loro potere fece il principale centro culturale del suo regno. Conquistato anche il Deccan (altipiano centrale), grazie ad abili combinazioni matrimoniali, Candragupta II è in grado di controllare i porti da cui si diramano i traffici con l’occidente. Di questa situazione beneficia logicamente l’economia del paese che conosce un significativo sviluppo: si consolidano nel periodo Gupta le shreni, specie di corporazioni o gilde, che si diffonderanno molto più tardi anche in Europa. Le shreni avevano un vero e proprio status giuridico, si erano dotate di bandiere, insegne e gerarchie interne (apprendista, studente, esperto, maestro), gestivano un proprio bilancio i cui profitti venivano suddivisi secondo le qualifiche, furono il motore dell’economia indiana di questo periodo.

L’epoca Gupta registra anche una un grande sviluppo dell’arte religiosa, favorito anche dalle generose donazioni dei regnanti; nasce in questi secoli la grande architettura indù, compaiono i primi templi induisti, concepiti come casa delle divinità, dove i fedeli si recavano a offrire doni e a pregare l’immagine del Dio posta all’interno. Gli esempi migliori di architettura induista di questo periodo li troviamo oggi a Deogarh nel centro India     (tempio dedicato a Visnù;) o a Aihole nel sud (tempio della dea madre, Durga; sotto).

L’impero Gupta restò intatto, nella sua dimensione ottimale, anche con il figlio Kumara ed il nipote Skandagupta; Skanda dovette però difendere il suo regno dalla crescente minaccia esterna degli Hsiung-nu, da noi conosciuti come unni, che in questi momenti giungono all’apice della loro ascesa; è nel 452 che Attila conquista e rade al suolo Aquileia.

Alla morte di Skanda, nel 467 d.c., si innesca il rapido declino dell’impero Gupta; gli Unni del condottiero Toramana conquistano l’Iran e da lì si estendono prima al Punjab e poi al Kashmir ed alle pianure gangetiche: verso la metà del VI secolo lo splendore della dinastia Gupta volge al tramonto e tutta l’India settentrionale torna nelle condizioni di frammentazione politica che avevano preceduto l’avvento dei Gupta. Nascono nuovi regni indipendenti, al centro del paese, come il Maharastra, mentre a sud si afferma il regno dravidico dei Pallava; ma su tutti incombe una nuova minaccia, il potente irrefrenabile espansionismo islamico.     

  3. L’impatto dell’Islam. Il sultanato di Dehli.

Lo scontro con l’Islam determina la fine dell’età classica dell’induismo. L’Islam (letteralmente “abbandono”, alla volontà di Dio) nasce nel 622 con la fuga di Maometto dalla Mecca (622 d.c.) e cresce con una rapidità impressionante; Maometto muore nel 632 e dopo solo quattro anni dalla sua morte le truppe guidate dal califfo Abu Bekr sconfiggono l’esercito bizantino nella battaglia di Yarmuk, da cui inizia il crollo dell’impero bizantino e l’estendersi del dominio arabo in meno di un secolo su  tutta l’Anatolia, l’Africa del Nord, fino alla Spagna ed ai Pirenei. L’India rimane abbastanza immune da questa prima ondata islamica, che si limita all’occupazione del Sindh (attualmente Pakistan, regione di Karachi); l’Islam però cambia radicalmente nel X secolo con l’arrivo dei turchi, guerrieri nomadi scacciati dall’invasione cinese dalle steppe dell’Asia, che, convertitisi alla vera religione, sottomettono rapidamente gli Arabi, ponendosi poi a capo del movimento di conquista (jihad); nel 1071 le orde turche sconfiggono a Mazinkert l’esercito bizantino, facendo prigioniero lo stesso imperatore Romano IV Diogene, battaglia che poi giustificherà la prima spedizione dei Crociati.

All’India però i turchi arrivano per altra strada, cioè dal passo Khiber, che tuttora segna il confine tra India ed Afghanistan; in questo paese un avventuriero turco aveva stabilito la sua base nella roccaforte di Ghazni, e da lì nel 997 Mahmud di Ghazni cominciò a lanciare incursioni nel nord dell’India saccheggiando e distruggendo templi, animato, oltre che dall’avidità di rapina, da un feroce spirito iconoclasta nei confronti degli idoli che li adornavano: la vera e propria occupazione dell’India del nord però iniziò solo 150 anni più tardi con il sopraggiungere di una nuova ondata di popolazioni turche, che sotto la guida di un “mamluk”, cioè uno schiavo del sultano investito della guida dell’esercito, arrivarono rapidamente a conquistare Peshawar nel 1179, Dehli nel 1193, per finire con l’intero Begala, 1202. Gli indiani non si arresero senza combattere, soprattutto le popolazioni “Rajput” (letteralmente figli di re) opposero una fiera resistenza agli invasori turco-afghani, senza mai arrendersi del tutto; alla fine, gli invasori riuscirono a stabilirsi nelle pianure gangetiche, trovando un modus vivendi con le popolazioni locali. Forse anche per motivi dettati da un pratico realismo (erano troppi), agli indù fu riconosciuta la condizione di “dhimmi”, letteralmente popoli protetti, in realtà asserviti, come cristiani ed ebrei; a loro veniva consentito di vivere nello stato islamico e di praticare la loro religione, contro il pagamento di una speciale tassa. Ben peggiore fu la sorte riservata ai monaci buddhisti, fatti oggetto di una feroce persecuzione, sterminati o costretti alla fuga dai loro centri di culto; così iniziò la diaspora del buddhismo verso altre nazioni, il Siam, la Thailandia o anche la Cina, mentre scomparve dall’India, in cui era nato; non vi tornerà che dopo la II guerra mondiale e la dichiarazione d’indipendenza.

    In seguito dell’assassinio del sultano residente a Ghazni (1206), il generale mamluk, Qubt-ad-Din colse l’occasione per autoproclamarsi sultano, fondando la dinastia “schiava” del Sultanato di Dehli: il sultanato durerà, sia pure sotto differenti dinastie, altri 320 anni, fino all’arrivo dei Moghul.   Non è qui il caso di ripercorrere le vicende di tutte le dinastie che si susseguirono sul trono di Dehli, spesso a seguito di rivolte interne e faide di palazzo; basti ricordare che i sultani di Dehli riuscirono a creare lo stato più potente del nord dell’India, dotato di un forte esercito e di un’amministrazione efficiente: a loro si deve la costruzione della nuova Dehli, che si innalza così al rango di capitale, che manterrà nel futuro. I sultani di Dehli no n riescono però ad estendere il loro dominio all’India centrale e meridionale; ai loro confini resistono gli indomabili Rajput, mentre al sud la terra Tamil conosce un nuovo periodo di grande splendore, anche artistico, sotto il regno dei sovrani Cola: è di questo periodo una statua bronzea tra le più famose del dio Siva, il Siva “nataraja” (signore della danza);Siva è rappresentato in un cerchio di fiamme mentre schiaccia un demone ed inizia la danza cosmica che deve far rinascere il mondo, in una mano tiene il tamburello del risveglio, nell’altra il fuoco che crea e distrugge.

Altra impressionante testimonianza di quest’epoca è il tempio di Tanjore, dedicato a Siva (anno 1000 d.c.): l’architettura dravidica, che già aveva sviluppato nei secoli precedenti lineamenti ben definiti, giunge alla sua maturità e crea capolavori eccelsi, imitati anche all’estero, come nei templi di Angor Wat, che sembra siano stati realizzati con la partecipazione di maestranze indiane.

Il sultanato di Dehli era riuscito, anche grazie ad abili manovre diplomatiche, ad allontanare la minaccia dei cavalieri mongoli ai tempi di Gengis Khan (XIII sec.), ma, indebolito da contrasti interni, dovette poi soccombere all’assalto delle orde di Timur lo Zoppo, Tamerlano, che, superato il passo Khiber, nel 1398 distrusse la stessa Dehli e si ritirò solo l’anno successivo, lasciando dietro di sé “torri” di teste e corpi martoriati, in una tremenda scia di torture e di sangue: Tamerlano portò anche con sé diecimila schiavi, Samarcanda è stata per buona parte costruita da tagliapietre, muratori e scalpellini indiani.

Come spesso già accaduto, in momenti difficili la religiosità indiana torna ad esprimersi in forme nuove; dal sud risale fino al Gange l’onda del “bhakti” (devozione), cioè una forma di induismo che pone l’accento sul valore della devozione ad una particolare divinità, come il dio Siva o la dea madre Durga: l’incontro di questa particolare forma di induismo con la religione islamica crea una nuova corrente religiosa, il sikhismo, che appare una sintesi tra le due fedi. Il fondatore, il guru Nanak (1440-1538) era nato nella fede indù, ma era stato presto attratto dal semplice amore di Dio, proclamato dall’islamismo. Abba­­ndonata quindi la sua casta, Nanak, che fu poi seguito nella predicazione da altri guru (sono stati dieci in tutto), inizia a predicare la dottrina sikh (significa discepolo), basata sulla fiduciosa devozione ad un unico Dio, il Creatore, il cui nome è Verità. Tre sono i principi fondamentali dettati da Nanak:

  • Lavorare = guadagnare lavorando onestamente senza imbrogli e truffe.
  • Condividere = anche solo una piccola parte del proprio guadagno.
  • Pregare = ricordare il Creatore in ogni momento.

   I sikh non riconoscono il sistema delle caste, rifiutano l’adorazione di idoli, come pure rituali e superstizioni, venerano solo la parola del Signore rivelata dai guru.    Pur trattandosi di una religione sostanzialmente pacifica e monoteista, il sikhismo fu, come vedremo in seguito, duramente perseguitato dai sovrani Moghul e questo la trasformò, ne fece una setta prevalentemente marziale; impugnare le armi per difendere se stessi e la propria religione è un dovere morale per i sikh, che così divennero dei formidabili guerrieri, inquadrati per questo numerosi nell’esercito britannico, ricordati anche nei romanzi di Salgari.    Ancora oggi, nelle cerimonie, i sikh indossano il pugnale Karpan, uno dei simboli della loro identità.

 

 Tempio d’oro di Amritsar, centro della religione sikh

(Continua)

 

Inserito il:11/05/2021 17:16:16
Ultimo aggiornamento:26/05/2021 20:30:52
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